
© Filippo Chinnici
All’interno degli ordinamenti liberali occidentali si è consolidata, con modalità capillari ma accuratamente celate, una rete transnazionale d’influenza che ha nel sionismo politico il suo fulcro ideologico. Questa struttura, articolata e pervasiva, riunisce organismi parlamentari, fondazioni, istituti culturali, media, apparati religiosi e lobby economiche, operando in sinergia per sostenere incondizionatamente lo Stato d’Israele e per neutralizzare ogni voce dissenziente.
Benché si presenti sotto il profilo della legittimità istituzionale e della cooperazione internazionale, tale sistema agisce come una vera e propria architettura del consenso, volta a plasmare la percezione pubblica, orientare le agende politiche e modellare le coscienze. Dalla diplomazia alla stampa, dalle chiese ai centri di ricerca, emergono traiettorie convergenti che puntano alla tutela dell’immagine e degli interessi geopolitici israeliani.
Questa inchiesta intende sollevare il velo su tale dispositivo, analizzandone le ramificazioni politiche, culturali e religiose. Ne verranno indagati i meccanismi di funzionamento, le strategie persuasive e le complicità trasversali, con l’obiettivo di restituire al dibattito pubblico una chiave critica oggi più che mai necessaria.
Contenuti
- 1. Transatlantic Friends of Israel: una lobby parlamentare trasversale
- 2. Dalla NATO ai media: una rete trasversale
- 3. Il ruolo occulto delle chiese evangeliche: gli «Amici di Israele»
- 4. Il consenso forzato: definizioni, censura e intimidazione
- 5. Una parola usurpata: chi sono davvero i semiti?
- Conclusione
1. Transatlantic Friends of Israel: una lobby parlamentare trasversale
Nel cuore delle istituzioni europee opera, con modalità sistematiche e spesso sottilmente celate, una delle più influenti reti di lobbying filo-israeliano del continente: il Transatlantic Friends of Israel (TFI). Si tratta di un gruppo interparlamentare fondato nel 2019 sotto l’egida del Transatlantic Institute, con sede a Bruxelles, diramazione europea dell’American Jewish Committee (AJC), una delle principali centrali strategiche del sionismo politico su scala globale [qui].
Secondo le dichiarazioni ufficiali, il TFI intende «rafforzare i legami transatlantici tra Stati Uniti, Unione Europea e Israele», promuovendo Israele come «l’unica democrazia liberale del Medio Oriente» e sostenendo iniziative comuni in materia di difesa, intelligence, diplomazia ed economia. Un obiettivo prioritario è altresì la lotta all’antisemitismo, interpretata però secondo l’accezione estensiva proposta dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che include tra gli esempi di antisemitismo anche numerose forme di critica alle politiche dello Stato israeliano [qui].
Nel 2024 il TFI dichiarava di contare 164 membri tra europarlamentari e parlamentari nazionali. La rappresentanza italiana si distingue per consistenza e trasversalità partitica. Ecco l’elenco dei membri italiani, suddivisi per schieramento: [qui]
- Fratelli d’Italia: Marco Scurria, Paola Ambrogio, Gianni Berrino, Andrea Di Giuseppe, Elisabetta Gardini, Lucio Malan (senatore evangelico), Cinzia Pellegrino, Giulio Terzi.
- Partito Democratico: Nicola Carè, Augusto Curti, Andrea De Maria, Marco Di Maio, Piero Fassino, Stefano Graziano, Pina Picierno.
- Forza Italia: Deborah Bergamini, Massimo Berutti, Paola Binetti, Andrea Orsini, Gianfranco Rotondi, Antonio Saccone.
- Unione di Centro (UDC): Lorenzo Cesa (presidente della delegazione parlamentare italiana presso la NATO).
- Lega: Simonetta Matone, Davide Bellomo, Francesco Bruzzone, Paolo Formentini, Eugenio Zoffili.
- Azione: Fabrizio Benzoni, Elena Bonetti, Ettore Rosato.
- Italia Viva: Mauro Del Barba, Naike Gruppioni
Vicepresidente del gruppo è Benedetta Buttiglione, figlia dell’ex ministro Rocco Buttiglione.
Il sito ufficiale del Transatlantic Institute precisa che il TFI coinvolge «decisori politici di tutto lo spettro ideologico, funzionari della NATO, diplomatici UE, think tank, giornalisti e membri della società civile», sottolineando dunque una penetrazione strategica non soltanto nelle camere legislative, ma anche nei gangli della governance europea, nei media e nel mondo accademico.
Come osservato da diversi studiosi e attivisti per i diritti umani, il rischio è che la retorica del «fronte democratico occidentale» serva da schermo ideologico per legittimare, senza contraddittorio, le politiche di apartheid, occupazione e militarizzazione messe in atto da Tel Aviv nei confronti del popolo palestinese. In tal modo, il consenso parlamentare si trasforma in consenso dogmatico, e la pluralità politica in obbedienza narrativa.
2. Dalla NATO ai media: una rete trasversale
La rete di influenza filo-israeliana non si esaurisce nella sfera parlamentare. Essa si estende, in modo trasversale e capillare, ai vertici della diplomazia europea, alle strutture militari della NATO, ai think tank strategici e ai principali circuiti informativi del continente. Questo sistema multilivello opera con l’obiettivo di promuovere una visione univoca del conflitto israelo-palestinese, in cui Israele viene rappresentato come baluardo della civiltà occidentale e ogni forma di resistenza palestinese come minaccia alla sicurezza globale.
Un ruolo chiave in tale dispositivo è svolto dall’European Leadership Network (ELNET), un’organizzazione con sede a Berlino, Parigi, Bruxelles e Tel Aviv, che si propone di rafforzare le relazioni Europa-Israele in ambito di sicurezza, intelligence e cooperazione strategica. Come documentato dal Middle East Monitor e confermato dalla stessa ELNET, l’organizzazione finanzia delegazioni riservate per parlamentari e funzionari europei in Israele, offrendo briefing con alti ufficiali dell’IDF, esperti di cyber-sicurezza e rappresentanti dell’apparato d’intelligence israeliano [qui] e [qui].
Una funzione analoga è svolta dalla Friends of Israel Initiative, fondata nel 2010 da figure di spicco della diplomazia euro-atlantica, tra cui l’ex premier spagnolo José María Aznar e l’ex ambasciatore statunitense John Bolton. La loro missione dichiarata è quella di difendere Israele dalla «delegittimazione sistemica» presso l’ONU e nei consessi dell’opinione pubblica occidentale.
L’azione delle lobby non si limita tuttavia al piano istituzionale: essa penetra in profondità nel mondo della comunicazione. Diversi organi di stampa, in particolare britannici, francesi e tedeschi, collaborano regolarmente con fondazioni filo-israeliane come il British Israel Communications and Research Centre (BICOM) e la Konrad Adenauer Stiftung, che organizzano viaggi stampa, corsi di formazione e sessioni di “fact-checking” orientato. In tali contesti, giornalisti selezionati partecipano a itinerari programmati presso insediamenti israeliani in Cisgiordania, ricevono materiali redatti dall’ufficio stampa del Ministero degli Esteri israeliano e stringono relazioni dirette con portavoce dell’IDF.
Questa forma di «educazione mediatica» ha prodotto negli ultimi anni un evidente livellamento del dibattito: le narrazioni palestinesi sono relegate ai margini, mentre la rappresentazione del conflitto tende a riprodurre la retorica della «sicurezza» israeliana, eludendo le radici storiche e giuridiche dell’occupazione. Le rare eccezioni, come alcuni reportage di Le Monde Diplomatique o di The Intercept, vengono spesso isolate come «militanti» o «ideologiche».
In sintesi, la macchina del consenso non funziona per imposizione brutale, ma per saturazione: essa costruisce una rappresentazione della realtà in cui le alternative sono bandite in partenza, e ogni dissenso è trattato come deviazione o minaccia. Il potere si manifesta non solo nel controllo delle decisioni politiche, ma soprattutto nel monopolio della narrazione.
3. Il ruolo occulto delle chiese evangeliche: gli «Amici di Israele»
Accanto all’azione diplomatica e parlamentare, il sionismo ha trovato nel mondo evangelico – in particolare nei suoi rami pentecostali e carismatici – un alleato teologico e strategico di primaria importanza. In Italia e in molte nazioni occidentali, numerose chiese evangeliche partecipano attivamente alla costruzione di un consenso religioso attorno a Israele, promuovendo una narrazione teologica che presenta lo Stato ebraico come elemento essenziale nel compimento delle profezie bibliche. Il video che segue, se osservato con attenzione fino all’ultimo fotogramma, offre una rappresentazione plastica e inequivocabile della realtà descritta.
Tra i soggetti evangelici più attivi sul suolo italiano figurano:
- Le Assemblee di Dio in Italia (ADI),
- La Federazione delle Chiese Pentecostali (FCP),
- La Chiesa Evangelica della Riconciliazione con sede a Caserta che nel 2014 è stata visitata da Bergoglio [qui],
- E numerose realtà afferenti alla cosiddetta «Nuova Riforma Apostolica» come «La Parola della Grazia» con la sede principale a Palermo, «Missione Paradiso» con la sede principale a Catania o quelle del brasiliano di Roma, tale chiesa «Karisma» con la sede appunto a Roma, un movimento neognostico evangelico, che si presenta come fautore di moderni “apostoli” e “profeti”. Un fenomeno che ho avuto modo di conoscere molto da vicino. Queste ultime si distinguono per un linguaggio «profetico-messianico» e una visione escatologica dispensazionalista che salda la teologia con il sostegno geopolitico a Israele. Ma lo fanno gratuitamente?
Molte di queste chiese aderiscono formalmente o informalmente alla rete internazionale dell’International Christian Embassy Jerusalem (ICEJ) e partecipano a iniziative promosse da organizzazioni come Christians United for Israel (CUFI) e Evangelici d’Italia per Israele (EDIPI). Queste realtà promuovono marce di solidarietà, incontri pubblici, conferenze e persino viaggi organizzati nei territori israeliani, spesso in collaborazione con l’ambasciata israeliana a Roma o con enti diplomatici dello Stato ebraico che speso elargiscono finanziamenti alle organizzazioni religiose.
Tuttavia, come documentato da una dettagliata inchiesta de Il Manifesto, questo attivismo non si fonda su una solidarietà incondizionata, bensì su un disegno escatologico preciso. Secondo le convinzioni dispensazionaliste che animano molte di queste comunità (qui), il ritorno degli ebrei in Israele (aliyah) rappresenterebbe una tappa necessaria per l’adempimento delle profezie bibliche e la manifestazione finale del Messia. L’obiettivo ultimo non è la convivenza tra i popoli, ma la conversione escatologica degli ebrei a Cristo. Chi non riconoscerà Gesù come Messia — secondo tale visione — sarà escluso dalla salvezza. Un appoggio teologicamente condizionato, dunque, che se da un lato alimenta il sostegno geopolitico a Israele, dall’altro ne rivela la natura profondamente strumentale e non realmente filosemita [qui].
Come dimostrato da numerose inchieste internazionali – tra cui quelle pubblicate da Haaretz e The Grayzone – tali organizzazioni evangeliche ricevono sovvenzioni dirette o indirette da fondazioni statunitensi ultraconservatrici, think tank neoconservatori e, in taluni casi, da ambienti legati all’intelligence israeliana.
È evidente che non si tratta solo di sostegno spirituale o caritatevole: la visione teologica promossa da queste chiese è fortemente ideologizzata. Essa presenta la nascita dello Stato d’Israele come adempimento della profezia biblica e il suo trionfo geopolitico come condizione necessaria per il ritorno del Messia. In tale quadro, ogni critica a Israele viene percepita non solo come errore politico, ma come ribellione alla volontà di Dio.
In molte comunità evangeliche italiane, vengono organizzate regolarmente «veglie di preghiera per la pace a Gerusalemme», eventi con rappresentanti dell’ambasciata israeliana, raccolte fondi per le vittime israeliane dei conflitti e studi biblici che legano escatologia dispensazionalista ad arte costruita nell’Ottocento da circuiti esoterici aschenaziti (qui) e (qui) e geopolitica. Queste pratiche alimentano una teologia civile che, nella sostanza, legittima ogni azione dello Stato d’Israele in nome di una presunta missione divina. In alcune di queste realtà è evidente anche un linguaggio militaresco e messianico, in cui il ritorno di Cristo è legato al trionfo geopolitico di Israele, e dove la critica all’operato dello Stato ebraico viene demonizzata come «ribellione allo Spirito santo», in un evidente capovolgimento della Verità biblica.
Infatti, per una larga parte del mondo evangelico, l’invocazione della «pace di Gerusalemme» pare tradursi, con sconvolgente frequenza, nell’ecatombe silenziosa dei fanciulli palestinesi. Nel documento filmato qui accluso, ad esempio, il pastore Paul Schafer — nell’esercizio più emblematico di quella preghiera ipocrita che ricorda il pubblicano stigmatizzato nei Vangeli — eleva suppliche affinché le forze armate d’Israele non si rendano responsabili dell’uccisione di un numero eccessivo di civili. Preferisco non aggiungere commenti.
Signore, illumina i capi di Stato di Israele e l’esercito a trovare una strategia veramente efficace, affinché possano prendere quelli di Hamas senza uccidere TANTI civili!
Il risultato di questa convergenza ideologica è una fusione artificiosa tra fede e strategia politica, che svuota il cristianesimo evangelico del suo contenuto biblico autentico. Prende così forma una religiosità secolarizzata ma travestita da spiritualità carismatica, nella quale l’emotività indotta surroga l’azione dello Spirito santo e la profondità della rivelazione. In tale scenario, predicatori abilmente istruiti nell’uso della retorica suggestiva e di tecniche comunicative mutuate dalla programmazione neuro-linguistica orchestrano atmosfere di apparente unzione, che agiscono sulla psiche collettiva più che sul cuore rigenerato. La musica, modulata per amplificare le risposte emotive, diviene uno strumento di induzione percettiva più che di adorazione genuina. Così, il culto si trasforma in spettacolo, la teologia in ideologia, e la spiritualità in coreografia emozionale funzionale alla legittimazione di narrazioni politiche. La promessa escatologica della Scrittura viene destrutturata e reimpostata con le mire strategiche di uno Stato moderno, e ciò che si presenta come zelo religioso si rivela, in realtà, un esercizio di consenso manipolato, volto al consolidamento di poteri terreni.
Emblematico, in tal senso, fu l’evento ecumenico svoltosi tra Palermo e Catania nel febbraio 2018, durante il quale rappresentanti di diverse chiese evangeliche accolsero delegazioni ufficiali del governo israeliano per una manifestazione pubblica di sostegno allo Stato ebraico. Secondo quanto riportato da fonti interne, su richiesta dei rappresentanti sionisti fu rimossa ogni menzione esplicita alla signoria di Gesù Cristo, generando indignazione tra numerosi fedeli evangelici, che denunciarono una forma di compromesso teologico e di sottomissione ideologica [qui].
A testimonianza del radicamento di poteri occulti nei meccanismi di diffusione del pentecostalismo globale, è interessante riportare una nota di Giorgio Bouchard, già presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia. In una recensione al volume Alfonso Melluso: il giovane saggio del Pentecostalismo Italiano (Alessandro Iovino, 2014), Bouchard ricorda che «una quarantina di anni fa, un giornale molto letto dai giovani intellettuali d’avanguardia comunicò ai suoi lettori che Nelson Rockefeller aveva convocato un incontro di grandi industriali statunitensi allo scopo di sostenere finanziariamente lo sviluppo del movimento pentecostale in Brasile». La figura in questione, Nelson A. Rockefeller (1908–1979), vicepresidente degli Stati Uniti d’America e nipote del fondatore della dinastia petrolifera, è storicamente legata a numerosi progetti di ingegneria sociale e diffusione del protestantesimo evangelico come strumento geopolitico in America Latina. Tali operazioni – documentate in vari dossier statunitensi degli anni ’60 e ’70 – avrebbero favorito la nascita di un pentecostalismo profondamente americanizzato, improntato alla teologia della prosperità, promotore del sionismo cristiano e altamente permeabile a infiltrazioni massoniche e orientamenti neoliberisti. Le denominazioni sorte da tale matrice, e come detto oggi presenti anche in Italia, condividono tratti dottrinali e prassi politiche che si armonizzano perfettamente con l’appoggio incondizionato allo Stato d’Israele e con le strategie evangeliche di penetrazione culturale su scala globale.
In tale clima, l’invocazione della «pace di Gerusalemme» si traduce, con sconvolgente frequenza, nell’indifferenza verso l’ecatombe silenziosa dei bambini palestinesi.
4. Il consenso forzato: definizioni, censura e intimidazione
Uno degli strumenti più sofisticati e al contempo insidiosi messi in campo dalle lobby filo-israeliane è l’imposizione di una definizione estensiva e ideologicamente orientata del concetto di antisemitismo. La definizione promossa dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), oggi adottata da numerosi Stati membri dell’Unione Europea e da svariate istituzioni accademiche, include tra i suoi esempi anche «l’accusa a Israele di essere uno Stato razzista» o «l’instaurazione di paragoni tra la politica israeliana e quella del regime sudafricano dell’apartheid» [qui].
Apparentemente concepita per contrastare l’odio antiebraico, questa definizione si è trasformata in uno strumento politico per silenziare ogni critica legittima nei confronti dell’operato dello Stato d’Israele. Le conseguenze si sono moltiplicate e si sono estese su scala internazionale:
- In Francia, Germania e Austria, attivisti del movimento BDS (Boycott, Divestment, Sanctions) sono stati perseguiti penalmente per il solo fatto di promuovere forme non violente di protesta contro l’occupazione israeliana [qui].
- Nel Regno Unito, il professor David Miller, sociologo e critico delle relazioni tra accademia e lobbying sionista, è stato licenziato dall’Università di Bristol nel 2021 in seguito a pressioni di gruppi filo-israeliani [qui].
- Numerose conferenze e convegni accademici incentrati sulla questione palestinese sono stati annullati in università europee, spesso con la giustificazione di presunti «rischi per la sicurezza» o dietro velate pressioni diplomatiche [qui].
- Giornalisti indipendenti, editori e autori che denunciano l’apartheid israeliano sono stati sistematicamente esclusi dai principali circuiti editoriali e televisivi.
Parallelamente, il sistema mediatico occidentale ha interiorizzato una forma di autocensura strutturale che ha sterilizzato il dibattito pubblico. Anche quando le politiche israeliane vengono qualificate come crimini internazionali da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, il linguaggio dei media mainstream tende a ridimensionare il problema a «incresciosi episodi» o a «violazioni isolate», evitando ogni riconoscimento di un disegno sistemico [qui] e [qui].
In questo clima, anche le organizzazioni ebraiche dissidenti, come Jewish Voice for Peace (Voce ebraica per la pace), un’organizzazione ebraica statunitense che si oppone all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e promuove i diritti umani, la giustizia sociale e il rispetto del diritto internazionale, vengono sistematicamente marginalizzate, tacciate di «auto-odio» o etichettati come «ebrei antisemiti», in un cortocircuito logico che trasforma ogni disaccordo con lo Stato israeliano in un atto sacrilego contro l’identità ebraica.[qui]
Tale utilizzo strumentale dell’antisemitismo, piegato a fini geopolitici, rappresenta uno degli ostacoli più gravi alla libertà accademica, all’indipendenza dei media e al dibattito democratico in Europa.
5. Una parola usurpata: chi sono davvero i semiti?
La potenza persuasiva dell’accusa di “antisemitismo” risiede, in parte, in un uso improprio e riduttivo del termine stesso. Storicamente e filologicamente, il concetto di «semita» deriva dal nome di Sem, uno dei figli di Noè, da cui, secondo la genealogia biblica, discenderebbero diversi popoli del Vicino Oriente antico, tra cui ebrei e arabi (Genesi 10).
Il termine «semitico» fu successivamente adottato in ambito filologico per indicare una famiglia di lingue accomunate da specifiche strutture morfologiche e fonologiche, tra cui l’ebraico, l’aramaico, l’arabo, l’accadico e il fenicio. In tale prospettiva, anche i popoli arabi appartengono alla categoria dei semiti, sia dal punto di vista linguistico che genealogico [qui].
Tuttavia, il linguaggio politico e giornalistico moderno ha ridotto il termine «antisemitismo» a mero sinonimo di ostilità verso gli ebrei, e, più di recente, a critica verso lo Stato di Israele. Tale uso improprio trascura il fatto che anche l’arabofobia – l’odio verso i popoli arabi – rappresenterebbe, a rigore, una forma di antisemitismo, se si volesse rispettare il senso originario della parola.
Inoltre, secondo la genealogia biblica contenuta in Genesi 10:3, gran parte degli ebrei di origine ashkenazita, provenienti dall’Europa orientale, discenderebbero da Askenaz, nipote di Jafet e dunque non appartenente alla linea di Sem. Questo dato, già presente nei testi biblici, è stato ripreso da alcuni studi genetici e storici che hanno messo in discussione l’unicità etnica del moderno ebraismo europeo [qui] e [qui].
Tali osservazioni non mirano a delegittimare l’identità ebraica, ma a denunciare l’abuso terminologico di una categoria trasformata in strumento di potere ideologico. L’uso esclusivo e politico della parola «antisemitismo» ha permesso di trasformare un concetto filologico complesso in una clava retorica, capace di zittire ogni critica, anche quando fondata su elementi giuridici, storici o morali.
Ristabilire la correttezza semantica non è un sofisma accademico, ma un atto di onestà intellettuale. È solo attraverso la chiarezza linguistica che si può restituire al dibattito pubblico quella trasparenza senza la quale né la libertà di espressione né la giustizia storica possono sopravvivere.
Conclusione
Il sionismo contemporaneo ha saputo costruire, attraverso una rete articolata di alleanze politiche, mediatiche e religiose, un sistema di protezione ideologica che lo pone al riparo da ogni critica. Uno degli strumenti più efficaci è rappresentato dalla ridefinizione del concetto di «antisemitismo» secondo i criteri estensivi promossi dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), oggi adottati da numerosi governi, università e istituzioni culturali [qui].
Sotto la maschera della difesa contro l’odio etnico-religioso, questa definizione è divenuta una barriera semantica che neutralizza qualsiasi dissenso verso le politiche israeliane. Attivisti del movimento BDS (Boycott, Divestment, Sanctions) sono stati incriminati o perseguiti in diversi paesi europei [qui]; professori come David Miller dell’Università di Bristol sono stati licenziati per aver espresso opinioni critiche [qui]; conferenze su Palestina e diritti umani vengono annullate regolarmente, come documentato dal Middle East Monitor [qui]; e giornalisti indipendenti sono sistematicamente esclusi dai grandi circuiti informativi.
Parallelamente, anche organizzazioni ebraiche eterodosse come Jewish Voice for Peace (Voce ebraica per la pace) vengono ridicolizzate e isolate, accusate di tradimento per aver denunciato l’apartheid e l’ingiustizia [qui].
A questo dispositivo ideologico si aggiunge il ruolo di alcune potenti organizzazioni evangeliche internazionali, che fungono da cassa di risonanza teologico-politica del sionismo. Secondo un’inchiesta pubblicata da Haaretz e ripresa da Nena News, gruppi evangelici statunitensi hanno investito circa 65 milioni di dollari nelle colonie israeliane della Cisgiordania nel corso dell’ultimo decennio [qui]. Organizzazioni come Hayovel e The Heart of Israel promuovono iniziative che vanno dalla manodopera volontaria alla raccolta fondi, contribuendo direttamente alla colonizzazione dei territori occupati [qui].
In Italia, come documentato da Terzo Giornale, realtà legate alla Nuova Riforma Apostolica e ad altre correnti evangeliche carismatiche si sono rese protagoniste di un’adesione incondizionata al progetto sionista, spesso sostenuto da motivazioni escatologiche [qui]. Allo stesso tempo, iniziative come quella della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia mostrano un’altra via, quasi da parafulmine, promuovendo aiuti umanitari per Gaza e un dialogo autentico tra le comunità [qui].
In definitiva, ci troviamo di fronte a una vera e propria macchina da guerra ideologica che non si limita a influenzare la politica, ma si insinua nelle coscienze, imponendo un paradigma unico di pensabilità. Spezzare questo incantesimo non significa negare il diritto all’esistenza dello Stato di Israele o ignorare l’antisemitismo reale e odioso. Significa, piuttosto, rivendicare il diritto alla critica, alla libertà accademica, alla giustizia storica. E soprattutto, alla verità.
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