Alle origini di Silvio Berlusconi
Silvio Berlusconi, nasce a Milano il 29 settembre 1936. Primo di tre figli (due maschi e una femmina) di Luigi Berlusconi, impiegato alla Banca Rasini, e Rosa Bossi, casalinga. Nel 1954 prende la maturità classica al liceo salesiano Copernico e s’iscrive all’Università Statale, facoltà di Giurisprudenza. A tempo perso, vende spazzole elettriche porta a porta, fa il fotografo ai matrimoni e ai funerali, suona il basso e canta nella band dell’amico d’infanzia Fedele Confalonieri (anche sulle navi da crociera). Nel 1961 si laurea in legge con 110 e lode, a Milano: tesi sugli aspetti giuridici del contratto pubblicitario, e vince una borsa di studio di 2 milioni messa in palio dalla concessionaria Manzoni. Evita, non si sa come, il servizio militare. E si dà all’edilizia, acquistando un terreno in via Alciati, grazie alla garanzia fornitagli dal banchiere Carlo Rasini, che gli procura anche un socio, il costruttore Pietro Canali. Nasce la Cantieri Riuniti Milanesi. Nel 1963 fonda la Edilnord Sas: Soci accomandatari (quelli che vi operano), oltre al futuro Cavaliere, sono il commercialista Edoardo Piccitto e i costruttori Pietro Canali, Enrico Botta e Giovanni Botta. Soci accomandanti (quelli che finanziano l’operazione) il banchiere Carlo Rasini, titolare dell’omonima banca con sede in via dei Mercanti a Milano, e l’avvocato d’affari Renzo Rezzonico, legale rappresentante di una finanziaria di Lugano: la “Finanzierungesellschaft für Residenzen Ag”, di cui nessuno conoscerà mai i reali proprietari. Si tratta comunque di gente molto ottimista dal momento che ha affidato enormi capitali a Silvio Berlusconi che all’epoca era solo un giovanotto di 27 anni che fino a quel momento non aveva dato alcuna prova imprenditoriale degna di nota.
Sulla banca Rasini, dove il padre Luigi Berlusconi lavora per tutta la vita, da semplice impiegato a direttore generale, ecco la risposta di Michele Sindona (bancarottiere piduista legato a Cosa Nostra e riciclatore di denaro mafioso) al giornalista americano Nick Tosches, che nel 1985 gli domanda quali siano le banche usate dalla mafia:
“In Sicilia il Banco di Sicilia, a volte. A Milano una piccola banca in piazza Mercanti”.
Cioè la Rasini, dove – ripetiamo – Luigi Berlusconi, padre di Silvio, ha lavorato per tutta a vita, fino a diventarne il procuratore generale. Alla Rasini tengono i conti correnti noti mafiosi e narcotrafficanti siciliani come Antonio Virgilio, Salvatore Enea, Luigi Monti, legati a Vittorio Mangano, il mafioso che lavora come fattore nella villa di Berlusconi fra il 1973 e il 1975.
Nel 1964 apre un cantiere a Brugherio per edificare una città-modello da 4 mila abitanti, di cui però non riesce a vendere nemmeno un appartamento. Poi, non si sa come, riesce a venderlo al Fondo di previdenza dei dirigenti commerciali. Nel 1965 sposa Carla Elvira Dall’Oglio, genovese, che gli darà due figli: Maria Elvira (1966) e Piersilvio (1969).
Il 29 ottobre 1968 nasce la Edilnord Centri Residenziali Sas (una sorta di Edilnord 2): stavolta, al posto di Berlusconi, come socio accomandatario c’è sua cugina Lidia Borsani, 31 anni. E i capitali li fornisce un’altra misteriosa finanziaria luganese, la “Aktiengesellschaft für Immobilienanlagen in Residenzentren Ag” (Aktien), fondata da misteriosi soci appena 10 giorni prima della nascita di Edilnord 2. S. Berlusconi da questo momento sparisce nel nulla, coperto da una selva di sigle e prestanome. Riemergerà solo nel 1975 per presiedere la Italcantieri, e nel 1979, come presidente della Fininvest.
Intanto nascono decine di società intestate a parenti e figuranti, controllate da società di cui si ignorano i veri titolari. Come ha ricostruito Giuseppe Fiori nel libro “Il venditore” (Garzanti, 1994, Milano), Italcantieri Srl nasce nel 1973, costituita grazie ad altre due misteriose fiduciarie ticinesi, la “Cofigen Sa” di Lugano (legata al finanziere Tito Tettamanzi, vicino alla massoneria e all’Opus Dei) e “Eti A.G.Holding” di Chiasso (amministrata da un finanziere di estrema destra, Ercole Doninelli, proprietario di un’altra società, la Fi.Mo, più volte inquisita per riciclaggio, addirittura con i narcos colombiani).
Nel 1973 Silvio Berlusconi acquista da Annamaria Casati Stampa di Soncino, ereditiera dodicenne della nota famiglia nobiliare lombarda rimasta orfana nel 1970, la settecentesca Villa San Martino ad Arcore, con quadri d’autore, parco di un milione di metri quadrati, campi da tennis, maneggio, scuderie, due piscine, centinaia di ettari di terreni. La Casati è assistita da un pro-tutore, l’avvocato Cesare Previti, che è pure un amico di Berlusconi, figlio di un suo prestanome (il padre Umberto) e dirigente di una società del gruppo (la Immobiliare Idra). Grazie alla fortunata coincidenza, la favolosa villa con annessi e connessi viene pagata circa 500 milioni dell’epoca: un prezzo irrisorio. E, per giunta, non in denaro frusciante, ma in azioni di alcune società immobiliari non quotate in borse, così che, quando la ragazza si trasferisce in Brasile e tenta di monetizzare i titoli, si ritrova con una carrettate di carta. A quel punto, Previti e Berlusconi offrono di ricomprare le azioni, ma alla metà del prezzo inizialmente pattuito. Una sentenza del Tribunale di Roma, nel 2000, ha assolto gli autori del libro “Gli affari del presidente”, che raccontava l’imbarazzante transazione.
In un condominio di Milano 2 nasce una Tv via cavo, Telemilano 58, che passerà ben presto all’etere col nome di Canale 5. Berlusconi si trasferisce con la famiglia a villa Casati, affiancato dal boss mafioso Vittorio Mangano, assunto in Sicilia da Dell’Utri come “fattore”, cioè come amministratore della casa e dei terreni. Mangano lascerà lascerà la villa solo due anni più tardi, quando verrà sospettato di aver organizzato il sequestro di Luigi d’Angerio principe di Sant’Agata, che aveva appena lasciato la villa di Arcore dopo una cena con Berlusconi, Dell’Utri e lo stesso Mangano. Mangano verrà condannato persino per narcotraffico (al maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino) e, nel 1998, all’ergastolo per omicidio e mafia.
Nel 1974 nasce la “Immobiliare San Martino”, amministrata da Marcello Dell’Utri e capitalizzata da due fiduciarie del parabancario Bnl: la Servizio Italia (diretta dal piduista Gianfranco Graziadei) e la Saf (Società Azionaria Finanziaria, rappresentata da un prestanome cecoslovacco, Frederick Pollack, nato nientemeno che nel 1887). A vario titolo e con vari sistemi e prestanome, “figlieranno” una miriade di società legate a Berlusconi e ai suoi cari: a cominciare dalle 34 “Holding Italiana” che controllano il gruppo Fininvest. Secondo il dirigente della Banca d’Italia Francesco Giuffrida e il sottufficiale della Guardia di Finanza Giuseppe Ciuro, consulenti tecnici della Procura di Palermo al processo contro Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, queste finanziarie hanno ricevuto fra il 1978 e il 1985 almeno 113 miliardi (pari a 502 miliardi di lire e 250 milioni di euro di oggi), in parte addirittura in contanti e in assegni “mascherati”, dei quali tuttoggi “si ignora la provenienza”. La Procura di Palermo sostiene che sono i capitali mafiosi “investiti” nel Biscione dalle cosche legate al boss Stefano Bontate. La difesa afferma che si tratta di autofinanziamenti, anche se non spiega da dove provenga tutta quella liquidità. Lo stesso consulente tecnico di Berlusconi, il professor Paolo Jovenitti, ammette l’”anomalia” e l’incomprensibilità di alcune operazioni dell’epoca.
Nel 1975 le due fiduciarie danno vita alla Fininvest. Nascono anche la Edilnord e la Milano 2. Ma Berlusconi non compare mai: inabissato e schermato da una miriade di prestanomi dal 1968 al 1975, quando diventa presidente di Italcantieri, e al 1979, quando assumerà la presidenza della Fininvest. 1977. Appena divenuto Cavaliere del Lavoro, acquista una quota dell’editrice de Il Giornale, fondato nel 1974 da Indro Montanelli. 1978-1983. Riceve circa 500 miliardi al valore di oggi, di cui almeno una quindicina in contanti, per alimentare le 24 (poi salite a 37) Holding Italiana che compongono la Fininvest, di cui si ignora tutt’oggi la provenienza.
Sono gli anni della scalata di Bettino Craxi, segretario del Psi dal 1976, al potere e della sua ascesa al governo.
Il 26 gennaio 1978 Silvio Berlusconi si affilia alla loggia Propaganda 2 (P2), presentato al gran maestro venerabile Licio Gelli dall’amico giornalista Roberto Gervaso. Paga regolare quota di iscrizione (100 mila lire) e viene registrato con la tessera 1816, codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625. La partecipazione al pio sodalizio gli procaccerà vantaggi di ogni genere: dai finanziamenti della “Servizio Italia” di Graziadei ai crediti facili e ingiustificati del Monte dei Paschi di Siena (di cui è provveditore il piduista Giovanni Cresti) alla collaborazione con il “Corriere della Sera” diretto dal piduista Franco Di Bella e controllato dalla Rizzoli dei piduisti Angelo Rizzoli, Bruno Tassan Din e Umberto Ortolani. La P2 verrà poi sciolta, in quanto “eversiva”, con un provvedimento del governo Spadolini. 1980. Berlusconi fonda, con Marcello Dell’Utri, Publitalia 80, la concessionaria pubblicitarie per le reti TV.
Il 24 ottobre 1979 Silvio Berlusconi riceve la visita di tre ufficiali della Guardia di Finanza nella sede dell’Edilnord Cantieri Residenziali. Si spaccia per un “un semplice consulente esterno” addetto “alla progettazione di Milano 2”. In realtà è il proprietario unico della società, intestata a Umberto Previti. Ma i militari abboccano e chiudono in tutta fretta l’ispezione, sebbene abbiano riscontrato più di un’anomalia nei rapporti con i misteriosi soci svizzeri. I finanzieri faranno carriera tutti e tre. Si chiamano Massimo Maria Berruti, Salvatore Gallo e Alberto Corrado. Maria Berruti, il capopattuglia, lascerà le Fiamme Gialle pochi mesi dopo per andare a lavorare per la Fininvest come avvocato d’affari (società estere, contratti dei calciatori del Milan, e così via). Arrestato nel 1985 nello scandalo Icomec (e poi assolto), tornerà in carcere nel 1994 insieme all’altro ex finanziare Alberto Corrado per i depistaggi nell’inchiesta sulle mazzette alla Guardia di Finanza, poi verrà eletto deputato per Forza Italia e condannato in primo e secondo grado a 8 mesi di reclusione per favoreggiamento. Salvatore Gallo risulterà iscritto alla loggia P2.
Il 30 maggio 1983 la Guardia di Finanza di Milano, che sta controllando i telefoni di Berlusconi nell’ambito di un’inchiesta su un traffico di droga, redige un rapporto investigativo in cui si legge:
“È stato segnalato che il noto Silvio Berlusconi finanzierebbe un intenso traffico di stupefacenti dalla Sicilia, sia in Francia che in altre regioni italiane (Lombardia e Lazio). Il predetto sarebbe al centro di grosse speculazioni in Costa Smeralda avvalendosi di società di comodo aventi sede a Vaduz e comunque all’estero. Operativamente le società in questione avrebbero conferito ampio mandato ai professionisti della zona”.
Per otto anni l’indagine, seguita inizialmente dal pm Giorgio Della Lucia (poi passato all’Ufficio istruzione, da anni imputato per corruzione in atti giudiziari insieme al finanziere Filippo Alberto Rapisarda, ex datore di lavoro ed ex socio di Marcello Dell’Utri) langue, praticamente dimenticata. Alla fine, nel 1991, il gip milanese Anna Cappelli archivierà tutto.
Contenuti
1. Finanza ebraica e massoneria
L’ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), Giuliano Di Bernardo spiega:
«Io ho iniziato i rapporti con Israele quando ero gran maestro del Grande oriente. E via via si sono rafforzati. Tanto che la massoneria israeliana, quando nel 1993 sono uscito dal Goi, ha tolto il riconoscimento al Grande oriente per darlo alla Gran loggia regolare d’Italia. La massoneria israeliana ha voluto segnare una svolta, che inizialmente significò una sofferenza per gli ebrei massoni italiani. Ma il gran maestro Fuchs non ebbe esitazioni nel farlo. Anche oggi ho rapporti molto stretti con la massoneria israeliana, a titolo personale. D’altra parte c’è sempre stato un rapporto forte tra ebraismo e massoneria: i rituali massonici, soprattutto anglosassoni, danno grande importanza alla storia di Israele e molte leggende, come quella del tempio di Salomone, entrano nei rituali massonici a pieno titolo. Vi è sempre stato interesse da parte degli ebrei per la massoneria. Se prendiamo il Rito dell’arco reale, in Inghilterra, ci accorgiamo che esso è costruito sulla letteratura relativa alle dodici tribù di Israele. Esiste quindi un interesse dottrinale di Israele e dell’ebraismo per la massoneria. Un interesse che è anche di natura politica: i rapporti dello stato ebraico con gli Stati Uniti nel corso del tempo si sono manifestati anche attraverso la massoneria, in modo particolare attraverso la comune appartenenza di alcuni maestri, come me, al Rito scozzese antico e accettato».
Due strani «fratelli»: il banchiere di Dio e l’unto del Signore.
Trattare delle logge «coperte» implica necessariamente occuparsi anche di Silvio Berlusconi, mentre meno conosciuti sono invece i rapporti tra Berlusconi e il banchiere che fece da «ponte» tra la P2 e il Vaticano: Roberto Calvi.
È una storia interessante, perché illustra – come ha spiegato efficacemente Florio Fiorini – i fecondi rapporti che esistono tra la finanza massonica e quella vaticana.
Il 13 ottobre 2002, Carlo Calvi – il figlio del banchiere – affermava: «I magistrati Monteleone e Tescaroli mi hanno chiesto di fornire altri dettagli sui movimenti di denaro avvenuti negli anni Settanta sui conti esteri dell’Ambrosiano e sui rapporti tra Francesco Di Carlo [all’epoca boss mafioso di stanza a Londra, poi diventato collaboratore di giustizia, nda ] e Marcello Dell’Utri. Ci sono indicazioni anche sui soldi con cui venne costituita la Fininvest».
Carlo Calvi, in un’altra occasione, parla ancora di Berlusconi. E racconta che il padre, in una riunione del dicembre 1976 alle Bahamas, presente Marcinkus, lo prese sottobraccio e gli sussurrò: «Finanzieremo le attività televisive di Silvio Berlusconi». In merito a Marcinkus, Francesco Pazienza ci ha raccontato:
«Ricordo che mi presentò un signore, era Bill Casey, il capo della Cia. Marcinkus era un asset della Cia, e stavano preparando l’operazione della Cia in Polonia; anche Giovanni Paolo II era un politico, e lui ha dato il colpo finale ai sovietici».
La storia dei rapporti tra il banchiere di Dio Roberto Calvi e l’unto del Signore Silvio Berlusconi (come ironicamente si è definito lo stesso ex premier) è stata trattata nell’ambito di vari processi 11 che hanno portato alla luce questo interessante filo rosso di finanza massonico-vaticana.
Nel lungo rapporto redatto dalla Banca d’Italia – per conto dei pubblici ministeri Luca Tescaroli e Maria Monteleone – sul crack dell’Ambrosiano c’è un capitolo, quello finale, intitolato Il circuito finanziario: ulteriori forme di erogazione di disponibilità finanziarie: Capitalfin International Ltd , in cui si segnala: «Numerose sono state le operazioni finanziarie effettuate [da Roberto Calvi, nda ] utilizzando societaà del Gruppo o della “costellazione estera” del Banco ambrosiano».
La consulenza così prosegue: «Dette società, come evidenziato dai Commissari Liquidatori e, successivamente, dal pubblico ministero Pierluigi Dell’Osso, avevano caratteristiche di elevata anomalia operativa già per le modalità di costituzione e in particolare per il luogo ove venivano fondate e domiciliate. Fra dette operazioni si è rintracciata anche l’acquisizione di una partecipazione estera nella Capitalfin International Ltd, la “All 12”, sul cui conto, il dr. Dell’Osso, così scriveva: “Nel novembre 1977 Belrosa acquistava da altre società del gruppo Banco ambrosiano (Baol e Promotion) 4.900.000 azioni della Capitalfin International Ltd. – Nassau, società cui partecipavano a quell’epoca:
– Hydrocarbons International Holding, Zurigo;
– Banca nazionale del lavoro Holding, Lussemburgo;
– Ifi International, Lussemburgo;
– Montedison Holding, Lussemburgo;
– Bodry Ag, Zurigo (probabilmente legata alla Banca nazionale del lavoro)”.
I fondi necessari per tale operazione, il cui controvalore era di circa 25 milioni di dollari, provenivano da Agbc [Ambrosiano Group Banco Comercial, situato in Nicaragua, nda ]. Capitalfin era una finanziaria con interessi prevalenti nel settore della navigazione; deteneva altresì una rilevante partecipazione in Acqua Marcia». 14 La relazione della Banca d’Italia più oltre segnala: «Capitalfin fu messa in liquidazione nel settembre 1981; la società aveva accumulato perdite pari a circa 100 milioni di dollari. Liquidatore fu nominato M. Onorati, amministratore delegato di Acqua Marcia e rappresentante del gruppo Eni nel consiglio di amministrazione della Capitalfin».
La relazione di Bankitalia per la Procura di Roma evidenzia ancora:
«Sulla Capitalfin, Filippo Leoni, nell’interrogatorio del 7 aprile 1983, dichiarava: “Mi sono ricordato di un’altra operazione relativa alla Capitalfin, della quale mi portò a conoscenza Calvi. Risale alla fine del 1979 o comunque del 1980, perché il finanziamento fu fatto dall’Andino, che venne costituito appunto nell’ottobre del 1979. Calvi dopo aver fatto finanziare Belrosa, mi disse che in qualche modo ci si sarebbe dovuti occupare della Capitalfin per conto dello Ior, che deteneva una partecipazione nella società. Capitalfin divenne partecipata dell’Andino, per conto dello Ior. In sostanza Belrosa, ricevuto il finanziamento dall’Andino, ha acquistato questa partecipazione nella Capitalfin. La Capitalfin era una società bahamense e non c’era pertanto nominatività dei titoli azionari. Seppi da Costa che la Capitalfin aveva numerosi problemi finanziari ed economici, venuti alla luce dopo l’acquisizione della partecipazione. Dopo il finanziamento iniziale dell’Andino, più di una volta ci fu necessità di esborsi di ulteriori capitali, anche perché i vecchi azionisti avevano richiesto che anche noi contribuissimo a queste ricapitalizzazioni. Gli interventi erano sempre effettuati tramite finanziamenti alla Belrosa. Mi risulta che Calvi abbia sempre aderito a queste richieste di nuovi esborsi, anche se talvolta tergiversava e li faceva aspettare un po’. Nel corso del 1981 Costa diede le dimissioni perché era seccato; non era interessato a quel tipo di lavoro, che gli creava anche dei problemi politici”».
La relazione della Banca d’Italia segnala ancora:
«Le dichiarazioni di Leoni danno già una prima contezza della valenza negativa nell’economia del gruppo dell’operazione Capitalfin, che verosimilmente Calvi doveva aver voluto più nel contesto delle sue frequentazioni con altri confratelli delle P2 interessati alla vicenda, che non nell’ottica di una effettiva convenienza del gruppo».
Stando al rapporto redatto dal perito della Procura di Roma, le partecipazioni detenute, negli anni di operatività, da Capitalfin erano le seguenti:
In questa scarna tabella è contenuta una notizia di grande interesse. E cioè il fatto che nel 1974 una società finanziata da Roberto Calvi controllava al 100% una società di Silvio Berlusconi: la Fininvest Limited, situata nelle Grand Cayman. Il consulente della Banca d’Italia scrive: «Presidente della società Capitalfin era il rappresentante della Banca nazionale del lavoro, Alberto Ferrari (P2), mentre tra gli amministrativi risultava Gianfranco Graziadei (P2), dirigente di Servizio Italia, fiduciaria della Banca nazionale del lavoro».
Più avanti il consulente tecnico aggiunge: «La Lavoro Bank Overseas, società della Banca nazionale del lavoro, aveva negli anni in esame partecipato a Capitalfin e finanziato sia la stessa Capitalfin International (dal 1972 al 1976 e sino a un massimo di 110 milioni di dollari nel 1973) che il Banco ambrosiano Holding di Lussemburgo (nel 1979 50 milioni di dollari). In proposito è intervenuto anche Robinson Geoffrey Wroughton incaricato, per conto della società di revisione Touche, [la società Touche & Ross, nda ] di collaborare ai lavori di accertamento condotti per conto della liquidazione del Banco ambrosiano Holding di Lussemburgo. Lo stesso, ha dichiarato che gli approfondimenti, condotti sulle società partecipate o finanziate dal Banco ambrosiano Holding, venivano sintetizzati in appositi “rapporti di bozza” (draft report ), che evidenziano per singola società la destinazione delle somme ricevute più che la provenienza a monte delle stesse somme. Lo stesso ha precisato: “Con riferimento alle società che avevano acquistato azioni del Banco ambrosiano ricordo che le stesse acquisivano le necessarie disponibilità finanziarie dalle quattro società, che possiamo definire Holding esterne, quindi U.T.C., Manic, Anli, Zitropo. Le stesse, come rilevabile dai relativi report, traevano le necessarie risorse finanziarie da Ior, da Banca del Gottardo nonché da Baol”».
Va poi detto che la Capitalfin apparteneva pienamente al circuito Ior-Roberto Calvi. Come spiega la sentenza della Cassazione del 1998 sugli aspetti penali della bancarotta dell’Ambrosiano, la Belrosa, una società panamense riferibile al circuito segreto tra lo Ior e Calvi, nel novembre 1977 acquistò (con un finanziamento da parte dell’Ambrosiano Group Banco Commercial) la società Capitalfin.
In questo contesto, Umberto Ortolani ottenne 1 milione e 200.000 dollari da Calvi come compenso per l’operazione e ne girò 500.000 a Licio Gelli. Siamo sempre nell’ambito dei rapporti di potere tra Vaticano, massoneria e banche.
Capitalfin, la società di Calvi che aveva tra le sue partecipate la Fininvest Grand Cayman, stando agli atti giudiziari, è una specie di «pozzo senza fondo» nel quale Roberto Calvi è costretto a buttare soldi in continuazione per finanziare gli «amici degli amici». Capitalfin è in sostanza una società che produce gigantesche perdite e debiti, che il banchiere di Dio, iscritto alla P2, era chiamato in continuazione a coprire.
Nel 1977-1978, segnala un accurato studio del professor Carlo Bellavite Pellegrini, «per la terza volta società di Calvi sono chiamate a immettere nuovi capitali nella Capitalfin. Infatti, nel febbraio del 1977, di fronte al rifiuto dell’Istituto Finanziario Italiano a partecipare a un aumento di capitale, la società segreta Pueblo acquista 3.920.000 azioni della Capitalfin. Quindi, nel novembre dello stesso anno, è richiesto un nuovo intervento, attraverso l’acquisto per 25 milioni di dollari di azioni della Capitalfin da parte della Cisalpine e della Promotions», ovvero società che fanno sempre capo a Calvi e all’Ambrosiano, ma anche allo Ior (la Cisalpine). Ma i soldi non bastano mai. E Calvi intervenne una terza volta, prestando 8 milioni di dollari alla Capitalfin, sempre attraverso la Cisalpine e il Banco Comercial di Managua, in Nicaragua. Versamenti che vennero coperti con le solite operazioni di back to back , la tecnica dei depositi fiduciari mutuata da Sindona.
Ma torniamo alla Fininvest Limited delle Grand Cayman controllata al 100% dalla Capitalfin. Il tempo e il luogo di questa società segnalata nel rapporto della Banca d’Italia meritano attenzione. Ufficialmente la Fininvest conosciuta al largo pubblico è stata fondata a Roma il 23 marzo del 1975. Si chiamava Finanziaria d’investimento Fininvest Srl e il suo capitale sociale era detenuto da due fiduciarie della Bnl (Servizio Italia e Saf), la banca ai cui vertici sedevano i piduisti Alberto Ferrari e Gianfranco Graziadei. Alla luce dei documenti forniti dalla Banca d’Italia alla Procura di Roma (sulla base della perizia della società di revisione internazionale Touche & Ross), la nascita della più celebre di tutte le società di Silvio Berlusconi deve essere retrodatata di almeno un anno e collocata all’estero, nel paradiso off-shore delle Gran Cayman.
Un luogo anch’esso non casuale: come è stato documentato da accurate inchieste, le Cayman sono anche un punto d’appoggio fiscale dello Ior. «È impossibile sapere delle società partecipate all’estero dallo Ior. Basta un esempio per capire dove i segreti vengono conservati: le isole Cayman, il paradiso fiscale caraibico, guidato dal cardinale americano Adam Joseph Maida, che tra l’altro, siede nel collegio di vigilanza dello Ior» scriveva Marina Marinetti in un’inchiesta per «Panorama Economy» mai smentita dal Vaticano. «Le Cayman sono state sottratte al controllo della diocesi giamaicana di Kingston per essere proclamate missio sui iuris , alle dirette dipendenze del Vaticano».
Sempre alle Cayman sono state compiute le operazioni occulte che hanno caratterizzato l’esplosione del gruppo Parmalat presieduto da Calisto Tanzi, un industriale molto vicino alle finanze vaticane ma che ha avuto a che fare con professionisti legati alla P2. Curiosamente, anche i 500 milioni di euro «spariti» nel corso di un altro grande crack finanziario italiano, quello del gruppo Cirio guidato da Sergio Cragnotti, sono finiti proprio alle Cayman. 22 Tra l’altro, una delle controllate di Sindona, la Edilcentro Sviluppo International, aveva sede proprio alle Cayman Islands. Ed esisteva una società «consorella» con lo stesso nome e la stessa sede a Nassau.
Sarebbe possibile sapere molto di più, naturalmente, se venisse resa pubblica la superperizia della Touche&Ross che venne effettuata al momento del crollo del Banco ambrosiano. Ma non è mai stato possibile visionarla, perché sul documento 23 il governo inglese ha posto 24 il segreto di Stato e nessuno ha avuto la possibilità di verificare se nell’analisi 25 effettuata dai revisori dei conti figurino altri finanziamenti concessi da Calvi agli «amici degli amici».
2. La banca Rasini e i Cavalieri di Malta
Vi è un interessante punto di contatto, per quanto riguarda l’inizio della carriera di Berlusconi, tra la finanza vaticana e quella «massonica»: la Banca Rasini, l’istituto diretto da Luigi Berlusconi, il padre di Silvio. Stiamo parlando della banca che finanziò l’ex presidente del Consiglio quando era ancora ventisettenne nelle sue prime imprese immobiliari e che in seguito ebbe intensi rapporti con le 38 holding di Berlusconi. Secondo questa lettura dei fatti, l’uomo di Arcore sarebbe stato l’espressione dei due «poteri forti» che da sempre esercitano una pesante influenza sulla società italiana: la massoneria e il Vaticano.
La Banca Rasini s.a.s di Rasini, Ressi & C. apre i battenti a Milano negli anni Venti, con un capitale di 100 milioni di lire. Nel 1956 i soci (che non subiranno sostanziali modifiche fino all’inizio degli anni Settanta) sono: Enrico Ressi, Carlo Rasini, Gian Angelo Rasini, Giovanni Locatelli e Angela Maria Rivolta, tutti milanesi; più il signor Giuseppe Azzaretto, siciliano di Misilmeri, una piccola frazione della periferia di Palermo. Nel 1970 i soci della Rasini erano: Mario Rasini, Angelo Frova, Ernesto Crignola, Cesare e Massimo Turkheimer, Giacomo Spadacini, Francesca Cilia, Rosolino Baldani, Giuseppe Azzaretto a cui si aggiunge per la prima volta il figlio, Dario Azzaretto e una misteriosa società – denominata Brittener Anstalt – con sede a Mauren nel Liechtenstein, uno dei paradisi fiscali utilizzati dal massone Sindona.
Nello stesso periodo aumenta il peso del gruppo palermitano della famiglia Azzaretto ed entrano in scena altre due società «fantasma» (Wootz Anstalt e Manland Financière) costituite da persone che non vogliono apparire. Infatti hanno anch’esse sede nel Liechtenstein, uno dei paradisi fiscali meglio protetti del mondo.
Nel 1970 la Banca Rasini assume una quota di capitale in una collegata della Brittener di Mauren, la Brittener Anstalt di Nassau, nelle Bahamas. Nell’isola questa finanziaria ha stretti rapporti con la Cisalpine Overseas Nassau Bank, che vede nel consiglio di amministrazione persone che diventeranno poi famose per il crack dell’Ambrosiano: Roberto Calvi, Michele Sindona e il cardinale Marcinkus.
Il 14 dicembre 1973 la Banca Rasini si trasformava da società in accomandita semplice in società per azioni. Il peso del gruppo palermitano Azzaretto in quel periodo continuava a crescere.
Lo scettro del comando, in quella fase, passa dai milanesi Rasini ai palermitani Azzaretto. Ecco chi siede nel nuovo consiglio di amministrazione della fine del 1973: Dario e Giuseppe Azzaretto, Mario Ungaro (avvocato romano, amico di Michele Sindona e Giulio Andreotti), Rosolino Baldani e Carlo Rasini.
Anche i sindaci della banca cambiano: entrano due commercialisti di Siracusa, uno di Lecce e uno di Napoli. Il 30 gennaio 1974 Carlo Rasini getta la spugna e se ne va. Dario Azzaretto ne prende il posto, assommando anche la carica di direttore generale. Il 28 marzo 1974 Carlo Rasini abbandona definitivamente la banca fondata dalla sua famiglia: dà le dimissioni anche da consigliere. Il 7 giugno, in una girandola di nomine, entra nella Rasini Spa Antonio Secchione, con l’incarico di direttore generale.
3. I soci siciliani
Luigi Berlusconi, il papà di Silvio, aveva iniziato la sua carriera come semplice impiegato nella Banca Rasini, situata in piazza Mercanti, nel centro di Milano, a due passi dal Duomo. Si era guadagnato in fretta la stima del presidente, il conte Carlo Rasini, che lo ha ricordato come uno dei suoi più fedeli collaboratori, un uomo di grande dedizione al suo lavoro. «Prima di dare una matita nuova a un impiegato, si faceva esibire i mozziconi di quelle in uso. Era abituato a spegnere le luci che non servivano».
Il 4 aprile 1957 Luigi Berlusconi fu nominato direttore, con potere di firma, fino al 1973, quando andò in pensione. Il sostegno offerto dalla Banca Rasini al giovane Silvio non solo è stato riconosciuto dallo stesso premier, con espressioni affettuose nei confronti del padre ma, specialmente nel periodo dal 1960 al 1973, è documentato. È stato lui a supervisionare (insieme al commercialista Alberto Minna, sindaco della Rasini) le operazioni del giovane imprenditore. E anche dopo il suo pensionamento – come ha raccontato lo stesso Berlusconi – lo aiutò a ottenere i finanziamenti necessari a completare i suoi progetti come costruttore, offrendogli prezioso consiglio.
Ciò di cui si sa meno è la compagine della Banca Rasini, nella quale era presente una strana miscela di interessi. La piccola banca
monosportello, situata al numero 8 di piazza dei Mercanti (a pochi metri dal Duomo di Milano), fino alla fine della Seconda guerra mondiale era stata la banca privata dell’alta borghesia meneghina: il conte Rasini proveniva da una delle più note famiglie aristocratiche di Milano. 31 Peraltro il legame nato con i Berlusconi sembra essere proseguito nel tempo, perché i Rasini risultano essere stati tra i fondatori di Telepiù. 32
Meno chiara è invece la storia della famiglia Azzaretto di Misilmeri, un paese di 23.000 abitanti nell’hinterland di Palermo caratterizzato da un’alta densità mafiosa. 33 Secondo le ricerche che è stato possibile compiere, 34 Giuseppe Azzaretto (1875-1972) era figlio di Rosario Azzaretto, un umile calzolaio. La famiglia viveva in via Palestro 17, in una piccola casa vicina alla Chiesa Madre. L’abitazione pare consistesse di due stanzoni, ognuno di 35 metri quadri, uno sopra l’altro: al piano terra Rosario riparava scarpe, nello stanzone di sopra viveva la famiglia degli Azzaretto con i loro sei figli. In questo contesto crebbe il futuro azionista della piccola ma prestigiosa Banca Rasini di Milano. 35 Come fece fortuna Giuseppe Azzaretto? Non è dato saperlo. Risulta solo che un fratello, Antonio, emigrò a New York.
Giuseppe Azzaretto fu tuttavia in grado, pur provenendo da umili radici, di affermarsi rapidamente, forse in ragione di un matrimonio fortunato: il 15 marzo 1936 sposò infatti Goffreda Baldoni, nipote di un cardinale, Paolo Marella 36 (1895-1984), che fu assistente spirituale 37 di Pio XII, papa Pacelli, 38 il pontefice che amava collocare parenti e nipoti nelle società partecipate dal Vaticano.
Non a caso, un parente di Goffreda Baldoni, Rosolino Baldoni, è figurato a lungo tra gli azionisti della Banca Rasini.
Forte di questi appoggi vaticani, Azzaretto negli anni Cinquanta divenne un affermato imprenditore, con forti appoggi in politica e in grado di acquisire partecipazioni bancarie, come la Rasini. 39 Negli anni Sessanta Azzaretto figurava come titolare di una grossa azienda di componentistica elettrica, la Elettrocarbonium di Melegnano, nella zona a sudest di Milano, che impiegava 250 lavoratori e godeva di un contratto di fornitura esclusiva con il Vaticano. 40
Azzaretto grazie ai suoi agganci, faceva incetta di titoli cavallereschi. Nel 1970, due anni prima della morte, risultava insignito del titolo di Cavaliere dell’industria, grande ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica, cavaliere di Gran Croce (quinto ceto, terza classe) del sovrano militare ordine di Malta, commendatore della Corona d’Italia, commendatore di S. Agata, commendatore dell’ordine di Santo sepolcro. 41 Particolarmente significativa l’appartenenza ai cavalieri di Malta, 42 una lobby molto potente – ne fecero parte anche Licio Gelli e Umberto Ortolani – in ambito politico-finanziario, strettamente legata agli ambienti vaticani e molto forte anche negli Stati Uniti sin dal 1927. Tra le figure più in vista in questo ambito va ricordato il già citato cardinale di New York Francis Spellman, 43 «gran protettore» dell’ordine dei cavalieri di Malta.
Secondo Pio XII, i cavalieri di Malta erano la longa manus della massoneria in Vaticano, tanto che formò una commissione incaricata di sciogliere l’Ordine. Che si salvò grazie alla morte del pontefice tradizionalista e all’avvento di Giovanni XXIII, un papa accusato di simpatie «massoniche» che approvò le costituzioni dell’Ordine decretando la fine della commissione.
Quindi i cavalieri di Malta sono sempre stati percepiti come uno snodo importante tra la finanza massonica e quella vaticana. E la Banca Rasini – di cui il siciliano Azzaretto divenne il dominus nel 1973 – si collocava proprio in quest’alveo. È stato possibile 44 reperire in Sicilia una rara foto di Azzaretto in «uniforme» da cavaliere di Malta. E ne esiste un’altra che lo ritrae insieme a papa Pacelli, a riprova dei forti legami esistenti tra la famiglia Azzaretto e il Vaticano.
Importante anche l’appartenenza di Azzaretto all’Ordine dei Cavalieri del Santo sepolcro, guidati a lungo dal cardinale Giuseppe Caprio dell’Apsa (Amministrazione patrimonio sede apostolica), l’alto prelato che faceva affari con Florio Fiorini e che si rese disponibile a testimoniare in favore di Michele Sindona al processo di New York per il crack della Franklin Bank. Dei Cavalieri del Santo sepolcro di Palermo hanno fatto parte – ancora una volta – Umberto Ortolani, Licio Gelli e molti piduisti, oltre a Giuseppe Mandalari.
Quando la famiglia Azzaretto divenne – insieme alle misteriose società fantasma del Liechtenstein – il gruppo di controllo della Banca Rasini, nominò presidente, nel 1973, Carlo Nasalli Rocca di Corneliano, cavaliere di Malta 46 e nipote del cardinale Nasalli Rocca, che fino al 1952 era stato il potente arcivescovo di Bologna. 47
Connessioni strane, quelle tra la finanza massonica e gli ambienti vaticani. C’è stato chi, come Nick Tosches, riferendo le confidenze di Sindona, ha scritto che la Rasini era la banca della mafia a Milano. Indicazioni confermateci anche da Pazienza e Ferramonti. «La Rasini era lo sportello a Milano che riciclava i soldi della mafia e il direttore della Rasini era il padre di Berlusconi. Va anche detto che quelli erano altri tempi, il riciclaggio non era come adesso, riciclare non era così grave» racconta Pazienza. «Lo stesso Stefano Bontate, capo della mafia prima della guerra con i corleonesi di Riina, era venuto a Milano per conoscere Silvio Berlusconi. E anche Bontate, come noto, era massone.»
4. L’ingegnere, il banchiere e la massoneria
Ricostruire il lungo e complesso «filo rosso» della finanza massonica significa occuparsi anche della figura dell’ingegner Carlo De Benedetti, classe, 1934, ex editore del gruppo Repubblica-Espresso e ora di «Il Domani». Una figura la cui storia imprenditoriale è intrecciata con quella di altri uomini della finanza ritenuti vicini alla massoneria: Roberto Calvi in primis, Enrico Cuccia e soprattutto Silvio Berlusconi, un massone come lui «dormiente» con il quale De Benedetti si è più volte incontrato e scontrato.
De Benedetti risulta essere entrato a metà degli anni Settanta in massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande oriente d’Italia, «regolarizzato nel grado di maestro il 18 marzo 1975 con brevetto n. 21272». L’informazione è accertata, in quanto proviene direttamente dal gran maestro del Goi Gustavo Raffi, che lo ha dichiarato pubblicamente nel novembre 1993. La documentazione relativa è stata poi pubblicata sui giornali 48 senza ricevere smentite dall’interessato.
Ma già riguardo all’ingresso dell’industriale nella loggia Cavour esiste un piccolo «giallo»: il gran maestro Raffi ha affermato che De Benedetti era «proveniente dalla massoneria di Piazza del Gesù». Quindi la sua affiliazione dovrebbe essere anteriore: a quale anno risale? Ancor più interessante sarebbe capire a quale loggia di Piazza del Gesù appartenesse l’imprenditore. È noto infatti che la massoneria di Piazza del Gesù – molto forte in Piemonte – aveva al pari del Goi delle logge coperte, la più celebre delle quali è stata la citata Giustizia e Libertà, cui sarebbero appartenuti Cuccia, Merzagora, Carli e altre figure della finanza laica. Sembra inoltre che la Giustizia e Libertà sia confluita nel Grande oriente nel 1973, due anni prima dell’entrate di De Benedetti nel Goi. Ma De Benedetti non è entrato nel Goi con il grado di apprendista: era già maestro all’interno di una non meglio precisata loggia di Piazza del Gesù. Quale? Impossibile stabilirlo, certo è curioso che molti anni dopo De Benedetti lanci una iniziativa politica chiamata Libertà e Giustizia: 49 sicuramente un riferimento ai valori dell’azionismo cari a De Benedetti e al noto gruppo antifascista Giustizia e Libertà fondato a Parigi nel 1929 da Carlo Rosselli, ma anche un curioso anagramma del nome della loggia coperta.
All’epoca in cui De Benedetti viene «regolarizzato» come maestro alla loggia Cavour, l’imprenditore era alla guida della Gilardini, una società quotata in Borsa che fino ad allora si era occupata di affari immobiliari e che i due fratelli Carlo e Franco De Benedetti trasformeranno in una holding di successo, impegnata soprattutto nell’industria metalmeccanica. Nel 1974 era stato nominato presidente dell’Unione Industriali di Torino, una realtà che ha sempre vantato una forte presenza massonica, a partire dallo storico «fratello» Gino Olivetti, 50 una dei massoni più rappresentativi del mondo economico torinese negli anni Venti.
«Quando divenni presidente degli industriali di Torino, fui invitato a iscrivermi alla massoneria perché era una tradizione. Partecipai per due volte a delle riunioni, ma in seguito non ci andai più» ha raccontato De Benedetti, quando nel novembre 1993 ha avuto una polemica a mezzo stampa con Gustavo Raffi, il quale dichiarava che l’ingegnere «si è scatenato contro le logge che a suo
dire lo perseguitano. Viste le vicende che lo travagliavano, il Goi- Palazzo Giustiniani non poteva che rallegrarsi di tale accanimento. Poteva così evitare interessate generalizzazioni che lo potevano accomunare alle azioni dell’Ingegnere». Carlo De Benedetti rispose tramite il portavoce dell’Olivetti: «Sempre e solo nel 1975 l’Ingegnere partecipò a due riunioni e poi a nessun’altra, non avendo riscontrato motivazioni tali da giustificare un ulteriore impegno di tempo».
Sta di fatto che, secondo Raffi, De Benedetti resta nel Grande oriente, come maestro, dal marzo 1975 al dicembre 1982. Un periodo estremamente significativo, in cui accadono molti eventi forti legati alla massoneria e alla finanza.
Un anno dopo l’ammissione al Grande oriente, nel 1976, a De Benedetti veniva affidata la carica di amministratore delegato della Fiat. Come «dote» portava con sé il 60% del capitale della Gilardini, che cedette alla società degli Agnelli, in cambio di una quota azionaria della stessa Fiat (il 5%). De Benedetti cerca di rinnovare la dirigenza della società torinese, nominando manager a lui fedeli (a cominciare dal fratello Franco) alla guida di importanti unità operative del Gruppo. Ma dopo un breve periodo, quattro mesi – a causa, si dice, di «divergenze strategiche» – abbandona la carica in Fiat. Per alcuni, ma il condizionale è più che d’obbligo, i due fratelli avrebbero trovato un ostacolo insormontabile nella parte di dirigenza Fiat più legata alla famiglia Agnelli, che avrebbe scoperto un loro tentativo di scalata della società, appoggiata da gruppi finanziari elvetici.
Con il denaro ottenuto dalla cessione delle sue azioni Fiat, De Benedetti rileva le Compagnie industriali riunite (Cir), a cui in seguito garantirà il controllo azionario del quotidiano «la Repubblica» e del settimanale «L’Espresso». Successivamente vedrà la luce anche Sogefi, attiva nei componenti autoveicolistici, di cui De Benedetti è stato presidente per venticinque anni consecutivi, prima di cedere il posto al figlio Rodolfo, conservando però la carica di presidente onorario. Nel 1978 entra in Olivetti, di cui diventa presidente. In questa azienda, dal nome glorioso, ma molto indebitata e dal futuro incerto, pone le basi per un nuovo periodo di sviluppo, basato sulla produzione di personal computer e sull’ampliamento ulteriore dei prodotti, che vede aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa.
Nel 1981 il primo incontro-scontro con un altro potente «fratello»: Roberto Calvi, membro della P2 e della massoneria d’oltralpe, ma anche uomo di riferimento della finanza vaticana. Il 19 novembre 1981, dopo una serie di contatti avviati in ottobre con Calvi, Carlo De Benedetti acquista il 2% delle azioni del Banco (tramite due società, Cir e Finco). L’imprenditore entra nel consiglio di amministrazione dell’Ambrosiano e viene nominato vicepresidente. Vi rimarrà per 65 giorni, sino al 25 gennaio 1982 quando, a seguito di contrasti sulla gestione e sulla reale situazione finanziaria dell’istituto, rassegna le dimissioni e viene liquidato con oltre 80 miliardi di lire.
Cos’era successo in quel lasso di tempo? Le interpretazioni si dividono: uno scontro tra De Benedetti e Calvi sui conti reali del Banco ambrosiano e sulla gestione della rete estera è fuor di dubbio. Ma c’è un versante che è stato meno analizzato. Dal luglio del 1981, durante la detenzione a Lodi per reati valutari, aveva manifestato la disponibilità a collaborare con i giudici, parlando dei rapporti tra la P2, l’Eni e la politica (in particolare con i socialisti). Inoltre, nel marzo 1981 erano stati scoperti gli elenchi della P2 (di cui Calvi faceva parte, tessera 519) ed era esploso lo scandalo: di qui l’idea di Calvi di aprirsi a una partnership esterna che gli consentisse di risollevare le sue sorti. Far entrare nel capitale dell’Ambrosiano un «fratello» che godeva di un’ottima immagine (De Benedetti era stato nominato da poco imprenditore dell’anno e controllava «la Repubblica» e «L’Espresso») poteva essere un’opzione vincente. Qualcuno, però – forse la componente piduista della massoneria – gli aveva detto che avrebbe dovuto ripensare quella scelta.
Già durante un incontro del 21 novembre 1981 (due giorni dopo l’accordo) nella villa di Calvi, a Drezzo, il banchiere inizia a lanciare messaggi ambigui all’ingegnere.
«Sembrava un animale impaurito che cercasse di sfuggire alla luce. Ovviamente qualcuno o qualcosa gli aveva suggerito di abbandonare l’associazione con De Benedetti» osserva il giornalista Rupert Cornwell. Così, dopo l’incontro del 21 novembre, la situazione tra Calvi e De Benedetti si deteriora rapidamente.
«Poco prima della riunione del consiglio di amministrazione [del Banco, nda ] del 6 dicembre 1981 Calvi aveva preso da parte De Benedetti in un corridoio: “Stia attento, la P2 sta raccogliendo informazioni su di lei. Le consiglio di fare attenzione, perché lo so”» racconta Cornwell. Era una minaccia o una disperata richiesta di aiuto?
Emilio Pellicani, nel suo memoriale, rivela un dettaglio interessante: «L’onorevole Armando Corona [che sarebbe diventato gran maestro del Goi pochi mesi dopo i fatti di cui si narra, nel marzo 1982, nda ] doveva intervenire con il vicepresidente del Banco De Benedetti, il quale stava procurando qualche fastidio a Calvi. A tale proposito Carboni mi riferì che lo stesso Corona effettuò un viaggio in Israele, affinché fosse richiamato De Benedetti dai fratelli massonici; tale richiamo sfociò, sempre a detta di Carboni, nell’uscita di De Benedetti, clamorosa, dal Consiglio del Banco ambrosiano».
Pellicani aggiunge un altro dettaglio rivelatore: «Mazzotta [Maurizio Mazzotta, l’assistente di Francesco Pazienza, nda ] disse al Carboni che doveva preoccuparsi anche del fatto che non accadesse nulla al De Benedetti».
Questo aspetto delle possibili «minacce» a De Benedetti è stato spesso letto come un «avviso» da parte di Calvi. Tornano alla mente le pesanti affermazioni di Florio Fiorini, quando afferma che criminali della Magliana vicini a Roberto Calvi avevano sparato a Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco ambrosiano. Dichiarazioni che richiamano un passo della requisitoria del processo Calvi in cui figura una deposizione di Francesco Pazienza: «Francesco Pazienza ha dichiarato che i rapporti tra Calvi e Rosone erano di odio/amore. Quando Calvi era stato arrestato per la violazione della legge valutaria Rosone aveva tentato “un colpo di mano” alleandosi con Carlo De Benedetti. Dopodiché i rapporti erano diventati piuttosto tesi e Calvi non si fidava più di Rosone. Rosone osteggiava tutto quello che faceva Roberto Calvi».
Ma esiste un’altra chiave di lettura, secondo la quale gli ambienti della mafia e del riciclaggio – che si erano già avvicinati al Banco ambrosiano e a Roberto Calvi, costringendolo a «collaborare» – non gradissero una «presenza estranea» come quella di De Benedetti.
Calvi avrebbe corteggiato il finanziere proprio per sottrarsi a quell’«abbraccio mortale» con forze contigue alla mafia, ben documentato dalla requisitoria del pm Luca Tescaroli. Diversamente, non si comprende perché Calvi avrebbe dovuto cedere la vicepresidenza del Banco ambrosiano per un modesto 2% del capitale. Il banchiere, in realtà, già nel 1981 temeva per la propria vita. Non a caso già nell’autunno di quell’anno, quando la sua presidenza non era ancora in discussione, aveva elaborato un piano di fuga in caso di emergenza. Segno che Calvi temeva, più che di perdere la sua leadership , di perdere la vita. E che già nel 1981 il presidente dell’Ambrosiano era al corrente dell’esistenza di un piano per eliminarlo, qualora avesse rivelato il coinvolgimento in attività di riciclaggio (i pm parlano dei proventi di ben tre sequestri) e di investimento per conto della mafia e di imprenditori a essa vicini. Ma c’era anche un’opposizione politica all’accordo.
«Calvi trascurava di considerare la non irrilevante questione che la presenza di De Benedetti gli avrebbe alienato le simpatie di Bettino Craxi e di certi settori della Dc» osserva Francesco Pazienza nel suo memoriale. Che in ogni caso Calvi volesse svincolarsi dall’abbraccio mortale con la P2 è testimoniato da una drammatica lettera che il banchiere inviò al gran maestro Armando Corona nella primavera del 1982. Ma anche dalle lettere al cardinale Palazzini, gran protettore dell’Opus Dei, che inviò nello stesso periodo.
L’intesa con De Benedetti, però, non funziona. Il leader dell’Olivetti esce dal Banco ambrosiano, abbandonando Roberto Calvi al suo destino. Le interpretazioni, su questo punto, divergono. C’è chi, come Leo Sisti e Leonardo Coen, è sicuro delle buone intenzioni di De Benedetti nel tentare sino all’ultimo il salvataggio del Banco. Su questa linea anche David Yallop, secondo cui «la nomina di un vicepresidente non era conforme ai piani di Gelli e Ortolani di continuare a rubare nel Banco ambrosiano».
Secondo l’interpretazione di Floriano De Angeli, su Calvi e sull’Ambrosiano si gioca invece uno scontro tutto interno alla massoneria, quello tra la «galassia Mediobanca» e la cordata Sindona-Gelli-Craxi-Andreotti. Nell’ambito di questo scontro andrebbe letto il dissenso espresso da Romiti e Agnelli sull’accordo tra Calvi e De Benedetti e alcune dichiarazioni critiche della famiglia Calvi. Flavio Carboni, da noi intervistato, ricorda: «Calvi parlava male di De Benedetti, ne aveva un giudizio molto negativo».
Più sfumata la lettura di Rupert Cornwell, che sottolinea: «L’associazione di Calvi con De Benedetti ha un particolare risalto in quanto fu voluta da lui solo, come dimostrarono le pressioni esercitate su di lui per cambiar rotta. Forse Calvi immaginò di poter sfruttare brevemente De Benedetti per poi scartarlo, di utilizzarlo per placare i suoi nemici “laici” a sinistra e nella magistratura milanese che, si era andato convincendo, era uno strumento del partito comunista. Oppure si trattava di un atto spontaneo per esprimere, nel solito modo indiretto, la volontà di farla finita con tutto e di salvare la banca che aveva creato dal precipizio che l’aspettava? Non lo sapremo mai».
C’è infine chi, come Luigi Cavallo, parla di un «piano estorsivo di De Benedetti in tre fasi: 1. vicepresidenza e finta collaborazione; 2. contestazione e pressione crescente su Calvi; 3. ultimatum, rottura, estorsione e incasso».
Va peraltro detto, al riguardo, che il 22 aprile 1998 la Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna a quattro anni e sei mesi comminata a Carlo De Benedetti nel 1996 (a sua volta frutto di una riduzione rispetto alla precedente sentenza nel 1992, che comminava sei anni e quattro mesi per bancarotta fraudolenta) per il crack del Banco ambrosiano.
È interessante notare il fatto che attorno alla figura del piduista Calvi si muovevano due «fratelli» massoni, De Benedetti e Berlusconi, che perseguivano l’obiettivo della conquista del «Corriere della Sera», di fatto controllato dall’Ambrosiano: come segnala Cornwell, De Benedetti «voleva impossessarsi del “Corriere” attraverso la porta di servizio». L’imprenditore stesso non fa mistero delle sue intenzioni in un’intervista a Enzo Biagi. Ma nel maggio del 1982, anche Berlusconi sembra comparire sulla scena con gli stessi appetiti per il quotidiano milanese: nasce infatti una cordata Cabassi per rilevare l’Ambrosiano dietro la quale si sarebbe celato
Berlusconi, pronto a subentrare in un secondo tempo. Giuseppe Cabassi si muoveva nell’entourage di marca «socialista» del direttore finanziario dell’Eni, Florio Fiorini, e di altri imprenditori vicini a Bettino Craxi. Oltre che con Berlusconi, Cabassi aveva infatti intensi rapporti con Giancarlo Parretti. Ma anche con De Benedetti.
L’articolo, già abbastanza prolisso, non ha una conclusione perché ancora continua…
Complimenti ottimo articolo
Con la dipartita di Berlusconi gli italiani si sono tolti un peso enorme
Che orrore un paese che permette tutto ciò. Non può dirsi civile