5. Le teorie alternative: ricostruzioni moderne e loro debolezze
Nel corso dei secoli, e con particolare insistenza in epoca moderna, sono state formulate alcune teorie cronologiche alternative nel tentativo di risolvere la presunta incongruenza tra la formula «tre giorni e tre notti» di Matteo 12:40 e la cronologia tradizionale della così detta “Settimana Santa”, che colloca la crocifissione al venerdì e la risurrezione alla domenica. Tali ipotesi rivelano un approccio anacronistico e razionalista, che forza il testo sacro per ricondurlo a parametri cronometrici moderni, trascurando il contesto idiomatico, narrativo e teologico proprio della cultura semitica antica.
È fondamentale ribadire che la Bibbia non nasce in un contesto occidentale, ma sboccia in una cultura semitica profondamente diversa per visione del tempo, struttura narrativa e simbolismo teologico. Applicare al testo sacro categorie moderne di precisione cronologica significa fraintendere la natura stessa della rivelazione biblica.
5.1 La dottrina delle 72 ore: una falsificazione moderna
In alcuni ambienti evangelici contemporanei si è diffusa l’idea che l’espressione «tre giorni e tre notti» (Mt 12:40) debba corrispondere a settantadue ore letterali di cui la Bibbia non parla. Secondo tale ricostruzione, Cristo sarebbe stato crocifisso il mercoledì pomeriggio e sarebbe risorto al tramonto del sabato o il giovedì e risorto la domenica, in modo da adempiere una permanenza nel sepolcro pari a tre giorni e tre notti completi. Questa posizione si rivela teologicamente fuorviante e mina proprio ciò che vorrebbe difendere: l’inerranza e l’armonia della Scrittura.
La cosiddetta «dottrina delle 72 ore» non rappresenta un’esegesi fedele al senso letterale, ma una lettura deformata che sovrappone al testo ispirato categorie estranee alla cultura biblica. Essa nasce da un letteralismo anacronistico che ignora il contesto semitico del I secolo, proiettando su di esso criteri cronometrici moderni. Il metodo storico-grammaticale, quando applicato con rigore, impone invece di interpretare ogni parola nel quadro idiomatico, narrativo e simbolico proprio degli autori ispirati. E in quel contesto — giudaico, liturgico, tipologico — la formula «tre giorni e tre notti» riflette chiaramente il principio del miqṣat yôm ke-kullô, ovvero il computo inclusivo, e non corrisponde mai a settantadue ore esatte.
L’inerranza biblica non richiede una rigida corrispondenza aritmetica, ma una fedeltà al significato autentico del testo, alla sua forma profetica e al suo spirito ispirato. Pretendere una precisione cronologica che né Gesù né gli evangelisti hanno mai suggerito significa, paradossalmente, contraddire proprio la lettera della Scrittura. È un falso letteralismo che finisce col negare il vero significato letterale.
È infatti evidente che tutti e quattro i Vangeli attestano la crocifissione nel «giorno della preparazione» (παρασκευή, paraskeué), cioè il venerdì, immediatamente precedente il sabato ebraico (Mr 15:42; Mt 27:62; Lu 23:54; Gv 19:31). La testimonianza è univoca. Non vi è spazio per una reinterpretazione che anticipi la crocifissione al mercoledì o al giovedì.
La verità della Parola di Dio non ha bisogno di orologi per essere difesa. Ha bisogno, piuttosto, di lettori che sappiano discernere il linguaggio della rivelazione, e che non scambino la precisione occidentale con la verità biblica. L’autorità delle Scritture si manifesta nella potenza del loro annuncio, non nella conta sterile delle ore.
In definitiva, la teoria delle settantadue ore non difende la Scrittura: la travisa. È un esempio emblematico di come il falso zelo, disgiunto dal metodo esegetico corretto, possa condurre a errori dottrinali sotto l’apparenza della fedeltà biblica.
5.2 Confutazione delle teorie alternative
- Mancanza di fondamento evangelico. Tutti e quattro i Vangeli attestano concordemente che Gesù fu crocifisso nel «giorno della preparazione» (παρασκευή, paraskeué), vale a dire il venerdì precedente il sabato ebraico (Mr 15:42; Mt 27:62; Lu 23:54; Gv 19:31). Nessun dato testuale suggerisce una crocifissione anticipata al mercoledì o al giovedì.
- Assenza di sostegno patristico. Nessun Padre della Chiesa — neppure Origene, Agostino o Girolamo, noti per la loro penetrazione esegetica — ha mai ipotizzato una cronologia diversa da quella tradizionale. Fin dai primi secoli, la liturgia cristiana, come testimoniato dalla Didaché e dalla Traditio Apostolica, celebra la crocifissione il venerdì e la risurrezione la domenica.
- Incoerenza liturgica e narrativa. Le teorie alternative incrinano la coerenza del racconto evangelico. Se Gesù fosse risorto il sabato sera, la visita delle donne al sepolcro «il primo giorno della settimana, quando era ancora buio» (Gv 20:1) risulterebbe priva di senso. Tutti e quattro i Vangeli attestano che il sepolcro fu trovato vuoto nella mattina della domenica, non prima.
5.3 L’ipotesi dell’eclissi lunare
Alcuni studi contemporanei hanno ipotizzato un’eclissi lunare avvenuta il 3 aprile del 33 d.C. come possibile fenomeno coincidente con la crocifissione di Cristo. Si tratta, tuttavia, di una lettura naturalistica applicata indebitamente a un linguaggio che è squisitamente teologico. Luca 23:45 afferma con solennità che «il sole si oscurò» (ἐσκοτίσθη ὁ ἥλιος, eskotísthē ho hēlios), alludendo non a un evento astronomico ordinario, ma a un segno escatologico di portata cosmica.
Occorre affermarlo con chiarezza: un’eclissi solare è astronomicamente impossibile durante la Pasqua ebraica, che si celebra in corrispondenza della luna piena. Quanto all’eclissi lunare, essa non può oscurare il sole. Le leggi della natura non spiegano ciò che accadde quel giorno.
I Padri della Chiesa — tra cui Origene (In Matthaeum 27.66) — interpretarono quell’oscurità come una manifestazione prodigiosa, un atto sovrano di Dio nella storia, con valore escatologico e teofanico.
Attribuire quel buio a un evento meteorologico o celeste, riducendolo a fenomeno calcolabile, svuota il racconto evangelico del suo significato spirituale. Una simile interpretazione, de facto, adotta una prospettiva atea o deistica, rifiutando la realtà del miracolo e la sovranità divina sull’ordine cosmico.
Ma quel giorno, il sole si oscurò davvero. La creazione intera fu scossa. Il cielo si velò di lutto davanti al Crocifisso. E quella tenebra fu, insieme, segno di giudizio e preludio della luce che si sarebbe levata il terzo giorno.
Le teorie cronologiche alternative e le ricostruzioni naturalistiche, benché animate da intento apologetico, finiscono per compromettere l’integrità della rivelazione. Esse ignorano la struttura idiomatica, tipologica e teologica della Scrittura. Sul piano esegetico risultano fragili; sul piano testuale, inconsistenti; e sono infine smentite dalla tradizione liturgica più antica.
L’espressione «tre giorni e tre notti», come dimostrato nei paragrafi precedenti, non equivale a settantadue ore letterali, ma deve essere letta:
- alla luce del computo inclusivo e del simbolismo profetico, secondo cui ogni evento o porzione di giorno rientra pienamente nel conteggio narrativo e salvifico;
- alla luce del metodo ebraico di calcolo del tempo, secondo il quale ogni frammento di giornata, anche minimo, è considerato pienamente giorno intero, tanto sul piano giuridico quanto su quello cultuale.
Ogni tentativo di costringere l’annuncio evangelico entro categorie moderne e occidentali — astratte, quantitative, meccanicistiche — ne deforma irrimediabilmente la natura. Il racconto della Passione e della Risurrezione non è una cronaca da sincronizzare con un orologio, ma la narrazione ispirata del compimento eterno di Dio nella storia.
È il tempo della redenzione che irrompe nel tempo umano e che, nel segno del «terzo giorno», annuncia la vittoria sulla morte.
6. La patristica
L’interpretazione dell’espressione «tre giorni e tre notti» alla luce del computo inclusivo e del simbolismo profetico trova ulteriore conferma nella tradizione patristica. I Padri della Chiesa si confrontarono con la cronologia della Passione senza mai riscontrare una contraddizione tra Matteo 12:40 e la sequenza venerdì–domenica. Le loro testimonianze costituiscono un fondamento imprescindibile per la corretta comprensione del testo evangelico.
Origene (185–254), esegeta di straordinaria finezza, interpreta il «segno di Giona» non in senso quantitativo, ma tipologico:
«Il segno di Giona non va interpretato secondo la durata, ma secondo il tipo. Come Giona fu custodito nel ventre del pesce, così il Cristo fu nel cuore della terra. Il significato è figurato.» (In Matthaeum, XII, 40)
Egli valorizza il linguaggio profetico e nega validità a ogni lettura rigidamente cronologica.
Agostino (354–430), nella sua opera dedicata all’armonia tra gli Evangelisti, affronta esplicitamente il computo dei giorni:
«Il Signore fu sepolto nel giorno della preparazione (venerdì), riposò nel sabato, e risorse nel primo giorno della settimana: e così si compiono tre giorni, secondo l’uso degli Ebrei che considerano parte del giorno come l’intero.» (De consensu evangelistarum, III, 24)
Il Vescovo di Ippona accoglie esplicitamente il criterio idiomatico della cultura ebraica e lo integra nell’ermeneutica cristiana.
Girolamo (347–420), sommo conoscitore dell’ebraico e traduttore della Vulgata, conferma:
«Nel computo ebraico, qualunque parte del giorno viene considerata come un giorno intero. Così anche parte della notte. Non sorprende dunque che si dica: ‘tre giorni e tre notti’.» (Epistula 120, ad Hedibiam)
La sua testimonianza fonde competenza linguistica e fedeltà alla tradizione esegetica.
Ireneo di Lione (ca. 130–202), tra i più antichi testimoni della fede post-apostolica, scrive:
«Cristo, dopo essere rimasto nel sepolcro il tempo stabilito dal Padre – cioè tre giorni – ha trionfato sulla morte come Giona fu liberato dal pesce.» (Adversus Haereses, V, 23, 2)
La sua lettura, interamente tipologica, insiste sul compimento escatologico del piano divino.
Fin dai primi secoli, la Chiesa cristiana ha ordinato il proprio calendario liturgico secondo la cronologia tradizionale: la crocifissione il venerdì (Dies Parasceves), il riposo sabbatico e la risurrezione nella mattina della domenica (Dies Dominica). Né la Didaché, né gli scritti dei Padri apostolici, né i più antichi calendari cristiani (come il Calendario di Filocalo, IV sec.) riportano varianti rispetto a questa sequenza.
In sintesi, la voce unanime dei Padri e la coerenza della liturgia antica attestano che la locuzione «tre giorni e tre notti» era pienamente comprensibile nel suo senso idiomatico e teologico. La sequenza venerdì–domenica non fu mai oggetto di revisione, né in ambito esegetico né celebrativo. La difficoltà sollevata da alcuni interpreti moderni nasce unicamente da una lettura disancorata dal contesto semitico e testuale.
Conclusione
La difficoltà sollevata contro Matteo 12:40 nasce da una proiezione distorta, che pretende di misurare con strumenti moderni il linguaggio sacro di un’antica rivelazione. Ma la Scrittura non si piega ai criteri del cronometro: essa fiorisce in una terra semitica, in una cultura dove il tempo è grembo di mistero e la parola è gravida di simboli. I Vangeli, nella loro mirabile armonia, la Tradizione dei Padri, nella sua luminosa fedeltà, e la liturgia della Chiesa, nella sua memoria incorruttibile, convergono in un’unica voce: la voce del Verbo fatto carne.
- «Tre giorni e tre notti» non sono settantadue ore, ma una formula profetica, figlia dell’idioma ebraico e della logica salvifica di Dio;
- Il terzo giorno è il tempo della risurrezione, come aveva scritto Osea, come aveva annunciato Gesù stesso;
- Le espressioni evangeliche, pur diverse, danzano in cerchio attorno allo stesso sole: convergono tutte nel compimento, non si escludono;
- L’oscurità che calò sul Golgota non fu fenomeno naturale, ma tenebra reale ed escatologica, segno che il Creatore stesso stava chinando il capo;
- I Padri della Chiesa, unanimi, non hanno mai dubitato: Gesù morì il venerdì, riposò nel sabato nel soggiorno dei morti (Col. 2:14, 15), e trionfò all’aurora del primo giorno.
Il segno di Giona non è una somma di ore, ma un’icona vivente della discesa e dell’ascesa. Come il profeta uscì dal ventre del cetaceo (mostro marino?), così il Figlio dell’Uomo è uscito dal cuore della terra, recando in sé il primato della vita che non muore.
In quella tomba aperta si è squarciato il velo del tempo, e l’Eterno (YHWH) ha baciato il temporale. Il terzo giorno non è solo una data: è l’alba di tutte le cose nuove. È il sigillo eterno del Dio fedele. È l’istante in cui il silenzio si è fatto canto, e la morte è stata sconfitta.
«Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture» (1 Cor. 15:3, 4).
E ora, al termine della storia, la visione dell’Apostolo si compie:
«Poi vidi, ed ecco, in mezzo al trono e alle quattro creature viventi e in mezzo agli anziani stava un Agnello, in piedi, come immolato… Egli venne, e prese il libro dalla destra di colui che sedeva sul trono»
(Apocalisse 5:6, 7).
L’Agnello è risorto. L’Agnello regna. A Lui l’onore, la potenza e la gloria, nei secoli dei secoli. Amen.
Nota esegetica a Matteo 12:40
La struttura tipologica di ὥσπερ (hósper)… οὕτως (hoútōs) e il segno di Giona
Come (ὥσπερ hósper) infatti Giona fu nel ventre del mostro marino tre giorni e tre notti, così (οὕτως hoútōs) anche il Figlio dell’Uomo sarà nel cuore della terra tre giorni e tre notti. (traduzione mia)
Il versetto di Matteo 12:40 si erge come una vetta esegetica entro il panorama sinottico, nodo cristologico e profetico in cui il linguaggio semitico si fonde con l’annuncio escatologico. Per comprenderne la portata, è necessario un esame rigoroso e devoto del testo greco, restituendo, per quanto possibile, le profondità che si celano dietro le parole e i costrutti originali.
1. Parallelismo ebraico: l’impronta tipologica
Il versetto presenta un perfetto parallelismo ebraico di tipo sinonimico-progressivo, ben attestato nella poesia biblica e nella prosa profetica. La struttura «come… così«» (kĕmô… kēn in ebraico, resa nel greco con ὥσπερ hósper e οὕτως hoútōs) non esprime una mera analogia superficiale, bensì introduce una tipologia salvifica: quanto avvenne a Giona (Yônāh, יוֹנָה), profeta riluttante ma oggetto di redenzione, trova il suo pieno compimento nel Figlio dell’Uomo (ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου, ho huiòs tou anthrṓpou), figura messianica escatologica delineata in Daniele 7:13.
Tale costruzione, riconducibile alla logica tipologica propria dell’ermeneutica ebraica, è centrale nella predicazione di Gesù. L’evento passato funge da figura (τύπος, týpos) del compimento futuro, e la storia profetica si configura come prefigurazione della piena rivelazione messianica. Il parallelismo non rimanda dunque a una corrispondenza aritmetica, ma a una proporzione teologica: Giona è il tipo, Cristo l’antitipo; Giona è il profeta tratto in salvo, Cristo è il Salvatore che discende nella morte per redimere l’umanità.
2. Analisi filologica
- «Come infatti fu Giona…»: ὥσπερ γὰρ ἦν Ἰωνᾶς (hósper gàr ēn Iōnâs). Tradurre il verbo ἦν (ên, imperfetto di eimí, «essere») in italiano con il passato remoto impedisce di cogliere la sfumatura dell’’imperfetto greco che invece descrive uno stato duraturo. Il verbo ἦν (ên) indica più che una semplice collocazione temporale. Descrive un’immersione esistenziale e teologica.
- «nel ventre del mostro marino»: ἐν τῇ κοιλίᾳ τοῦ κήτους (en tē koilíā tou kétous). Il termine κῆτος (kêtos), attestato nella Settanta e nella letteratura greca (Omero, Apollodoro), indica una creatura marina gigantesca e terrificante, distinta dal più comune ἰχθύς («pesce»). Nella LXX, κῆτος (kêtos) traduce תַּנִּין (tannīn) in Genesi 1:21 e Salmo 74:13, dove designa i grandi mostri marini creati o domati da Dio. Solo in Giona 2:1 κῆτος (kêtos) rende dag gāḏōl (דָּג גָּדוֹל), caricando il «grande pesce» di Giona di una valenza mostruosa e cosmologica. La sua adozione nel Vangelo ha quindi valore simbolico e tipologico: evoca l’abisso caotico, confine tra Sheʾōl e resurrezione. La traduzione «mostro marino» o «creatura marina gigantesca» è preferibile per rigore filologico e teologico: riflette il senso arcaico del termine, evita semplificazioni zoologiche e introduce al valore tipologico. Il ventre del kétos non è solo spazio fisico, ma archetipo della tomba: è da lì che Giona prega, ed è da lì che risorge. È figura della discesa agli inferi di Cristo, che nel «cuore della terra» (kardía tēs gēs) compie il mistero della redenzione. Tale lettura fu recepita dai Padri della Chiesa (Origene, Basilio, Ambrogio), che identificarono nel kêtos una prefigurazione della discesa nel regno dei morti.
- «tre giorni e tre notti»: τρεῖς ἡμέρας καὶ τρεῖς νύκτας (treîs hēméras kaì treîs núktas). Locuzione idiomatica semitica, mai intesa in senso matematico, bensì come unità simbolica del tempo escatologico, riflesso del principio ebraico מִקְצַת יוֹם כְּכוּלוֹ (miqṣat yôm ke-kullô), secondo il quale una parte del giorno equivale all’intero giorno. La ripetizione di giorni e notti sottolinea la totalità del tempo, non la sua misura.
- «Così sarà il Figlio dell’Uomo»: οὕτως ἔσται ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου (hoútōs éstai ho huiòs tou anthrópou). L’uso del futuro ἔσται (éstai) sancisce l’adempimento profetico e inevitabile. La struttura hṓsper… hoútōs… non è un semplice paragone, ma un parallelismo ebraico tipologico (tipo–anti-tipo), in cui Giona è la figura, e Cristo il compimento.
- «nel cuore della terra»: ἐν τῇ καρδίᾳ τῆς γῆς (en tē kardíā tēs gēs). Kardía non significa centro geografico, ma nucleo profondo, abisso simbolico, luogo invisibile e oscuro dove il Creatore stesso si consegna alla morte. È l’interiorità dell’Ade, il centro dello Sheʾōl (שְׁאוֹל), l’antro in cui il Logos incarnato penetra per liberare i prigionieri (Ef 4:9; 1P 3:19).
3. Tensioni semantiche
Le versioni moderne spesso riducono la forza evocativa e tipologica del testo, tradendo il parallelismo poetico originario. La traduzione «stette nel ventre del pesce» banalizza il valore simbolico di kardía tēs gēs. Anche la locuzione «tre giorni e tre notti» viene fraintesa se letta secondo criteri quantitativi occidentali, mentre il contesto ebraico la concepisce come unità simbolica di tempo compiuto, non come cronologia da cronometrare.
Pretendere una precisione matematica — 72 ore esatte — significa ignorare la semantica idiomatica e teologica della Scrittura. Non si tratta di una formula cronometrica, ma profetica: un’intera tradizione ebraica, da Ester 4:16–5:1 a 1 Samuele 30:12–13, mostra come l’espressione «tre giorni e tre notti» indichi un arco temporale distribuito su tre giorni, non un calcolo aritmetico come ho già spiegato nell’articolo.
4. Traduzione
Come infatti Giona fu nel ventre del mostro marino tre giorni e tre notti, così anche il Figlio dell’Uomo sarà nel cuore della terra tre giorni e tre notti.
Questa mia traduzione mantiene l’ordine sintattico e semantico del testo greco, rispettando la simmetria tra l’evento tipico (Giona) e l’evento escatologico (Cristo).
5. Conclusione
Il cuore del versetto non è un problema di calendario, ma una epifania di salvezza. Giona è il profeta che discende nel “mostro marino” e risale sulla parola del Signore. Cristo è il Figlio eterno che discende nello Sheʾōl e ne infrange i cardini con la forza della risurrezione.
Come Giona uscì dal ventre del mostro marno, Cristo è risorto dalla profondità della terra, portando con sé il primato della vita. La “tenebra” (implicita) dei «tre giorni e tre notti» non è abisso cieco, ma tempo consacrato, grembo dell’attesa escatologica, vigilia del giorno nuovo. È il sabato del silenzio divino, il tempo in cui Dio tace per parlare con potenza alla terza alba.
L’ebraismo celebrava il terzo giorno come tempo dell’alleanza (Es 19:11), della guarigione (2 Re 20:5), del ritorno (Os 6:2). Il cristianesimo lo riconosce come giorno della nuova creazione.
Alla luce del greco biblico, dell’idioma ebraico e del compimento escatologico, Matteo 12:40 non è una sfida al cronometro, ma una sinfonia di annuncio profetico. E il lettore colto, che penetra nelle profondità di kardía tēs gēs (cuore della terra) non può che esclamare con il cielo intero:
Cristo è disceso nelle parti più profonde della terra, e la terra ha tremato. Cristo è risorto dal cuore della morte, e il tempo si è spezzato. A Lui sia la gloria in eterno!