
© Filippo Chinnici
Il capitolo undicesimo della Lettera ai Romani rappresenta una vetta della riflessione paolina, in cui la metafora dell’ulivo e dell’innesto disvela la continuità del popolo di Dio nel disegno della redenzione. La questione è cruciale: Israele e la Chiesa costituiscono due realtà distinte e separate, oppure sussiste un’unità organica che attraversa l’intera storia della salvezza?
Un’analisi rigorosa, ma non riduttiva, del testo nella sua integrità mostra che Paolo non introduce né una frattura tra due popoli separati né una revoca delle promesse fatte a Israele; piuttosto, afferma la continuità del patto, fondato sulla fede e non sulla discendenza carnale. Iustus autem ex fide vivit (Romani 1:17; Abacuc 2:4) – Il giusto vivrà per fede – non è un principio introdotto da Paolo, ma il cardine che ha sempre definito l’appartenenza al popolo di Dio.
Abramo fu giustificato non in ragione della sua etnia, ma perché credette alla promessa divina (Genesi 15:6; Romani 4:3). Lo stesso criterio si applica a ogni credente, come attesta la Scrittura: Non i figli della carne sono i figli di Dio, ma i figli della promessa sono considerati discendenza (Romani 9:8).
La Bibbia non presenta due popoli distinti, bensì un’unica comunità di redenti, in cui la fede è l’unico vincolo di appartenenza. Unum corpus multi sumus in Christo (Romani 12:5) – Pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo. Da Abele ad Abramo, da Mosè a Davide, dai profeti agli apostoli, la storia della redenzione è un continuum ininterrotto, radicato nella grazia divina e culminante in Cristo. Non vi sono due popoli paralleli né una sostituzione dell’uno con l’altro, ma un’unica realtà in cui sussistono:
- un solo ulivo,
- una sola radice,
- un solo Signore.
Egli (Cristo) dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione, abolendo nel suo corpo terreno la causa dell’inimicizia […] V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo (Efesini 2:14; 4:5)
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Contenuti
1. La metafora dell’Ulivo
L’impiego della metafora dell’Ulivo in Romani 11:17-24 non è frutto di una scelta arbitraria, ma affonda le sue radici nella tradizione biblica e nella cultura agricola dell’epoca. Nella Scrittura, l’Ulivo simboleggia benedizione, stabilità e continuità del patto tra Dio e il Suo popolo. In Geremia 11:16, Israele è descritto come un olivo verdeggiante, adorno di bei frutti, immagine che evoca la fecondità spirituale scaturita dalla comunione con Dio. Tuttavia, il profeta avverte che, a causa della loro infedeltà, Dio ha acceso un fuoco contro di loro, spezzandone i rami. Analogamente, in Osea 14:6, il ritorno del popolo al Signore è raffigurato con la crescita rigogliosa di un ulivo, a conferma che la prosperità spirituale è inscindibilmente legata alla fedeltà al patto.
Paolo riprende questa simbologia per illustrare la continuità organica del popolo di Dio, introducendo però un elemento di novità: i Gentili, un tempo esclusi dalle promesse (Efesini 2:12), vengono innestati nell’albero dell’alleanza. Questa immagine non solo smentisce ogni concezione di un popolo di Dio distinto e parallelo, ma ribadisce che l’appartenenza all’alleanza divina non si fonda sull’ascendenza etnica, bensì sulla fede nel Messia.
1.A. L’Innesto
L’immagine dell’ulivo utilizzata da Paolo in Romani 11:17-24 si articola attorno a tre elementi fondamentali. Ciascun aspetto della metafora deve essere confermato dall’intero contesto biblico e dall’analisi linguistica del testo greco, al fine di dimostrare che non si tratta di un’interpretazione arbitraria, ma di un insegnamento coerente con l’economia della rivelazione.
– I rami troncati: Gli Israeliti increduli che hanno rigettato Cristo
Al versetto 17 leggiamo:
Se alcuni rami sono stati troncati, mentre tu, che sei olivo selvatico, sei stato innestato al loro posto e sei diventato partecipe della radice e della linfa dell’olivo (Ro 11:17).
Il verbo greco ἐξεκλάσθησαν (exeklásthēsan, «sono stati recisi») è un aoristo passivo, indicando un’azione definitiva e già compiuta. Paolo non allude a un evento futuro, bensì a un giudizio storico in atto. Questo concetto si inserisce perfettamente nell’argomentazione di Romani 9-11, secondo cui la maggioranza di Israele non ha riconosciuto Cristo quale Messia, venendo così temporaneamente recisa dall’alleanza (Romani 9:30-33, 10:3).
Un’immagine analoga compare in Geremia 11:16-17, dove il Signore pronuncia un giudizio su Giuda e Israele per la loro idolatria:
L’Eterno ti aveva chiamato con il nome di Ulivo verdeggiante bello, con frutti squisiti. Al rumore di un gran tumulto, egli vi appiccherà il fuoco, e i suoi rami saranno distrutti…
Questa metafora sottolinea che il popolo d’Israele, pur destinatario delle promesse, non è immune al giudizio divino se si allontana dalla fede. Paolo ribadisce lo stesso concetto nel versetto 20:
Bene: essi sono stati troncati per la loro incredulità e tu rimani stabile per la fede; non insuperbirti, ma temi (Ro 11:20)
L’incredulità, non l’etnia, è la causa della recisione: Israele non è stato tagliato dall’ulivo per la sua identità giudaica, ma per la sua incredulità.
– I rami selvatici innestati: I Gentili che, per fede, sono incorporati nell’Israele di Dio
L’innesto di rami selvatici nell’ulivo simboleggia l’inserimento dei Gentili credenti nel popolo dell’alleanza. Paolo lo afferma esplicitamente:
Tu, che sei olivo selvatico, sei stato innestato al loro posto e sei diventato partecipe della radice e della linfa dell’olivo (Ro 11:17).
L’espressione greca σὺ δὲ ἀγριέλαιος ὢν (sù dè agriélaíos ōn, lett.: «tu, essendo un olivo selvatico»), evidenzia chiaramente la condizione pregressa di separazione dei Gentili dal popolo d’Israele.
Questa realtà trova ulteriore conferma in Efesini 2, dove Paolo descrive la condizione dei Gentili prima della venuta di Cristo:
In quel tempo voi eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. Ma ora, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo (Ef 2:12, 13)
Il verbo ἐνεκεντρίσθης (enekentristhēs, «sei stato innestato») anch’esso un aoristo passivo, indica che l’azione è stata compiuta da Dio stesso. L’innesto non avviene per merito umano, ma per grazia.
Nel versetto 24, Paolo sottolinea l’eccezionalità di questo innesto:
Se tu sei stato tagliato dall’olivo selvatico per natura e sei stato contro natura innestato nell’olivo domestico, quanto più essi, che sono i rami naturali, saranno innestati nel loro proprio olivo (Ro 11:24)
L’espressione παρὰ φύσιν (parà phýsin, «contro natura») riveste un’importanza centrale: il legame tra i Gentili e l’alleanza non è frutto di un processo naturale, ma di un atto sovrano di Dio che trascende ogni logica umana.
– La radice che sostiene tutto l’albero: La promessa fatta ad Abramo realizzata in Cristo
Il terzo elemento della metafora è la radice , la quale è il fondamento dell’Ulivo. Al v. 18 si legge:
Sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te (Ro 11:18)
L’insieme del contesto biblico suggerisce che la radice rappresenta le promesse fatte ad Abramo, compiute in Cristo (Genesi 12:3) che Paolo ribadisce nella lettera ai Galati:
Riconoscete dunque che quanti hanno fede sono figli di Abraamo […] Se siete di Cristo, siete dunque discendenza di Abraamo, eredi secondo la promessa (Galati 3:7, 29).
Qui è evidente che il legame con Abramo non è di natura biologica, ma spirituale, e si fonda sulla stessa fede che lo giustificò. Il compimento supremo della radice è Cristo stesso, come dichiarato sempre in Galati 3:
Le promesse furono fatte ad Abraamo e alla sua progenie. Non dice: «E alle progenie», come se si trattasse di molte; ma, come parlando di una sola, dice: «E alla tua progenie», che è Cristo (Ga 3:16)
Cristo, dunque, è la vera radice che dà vita ai rami. Egli stesso afferma:
Io, Gesù, ho mandato il mio angelo per attestarvi queste cose in seno alle chiese. Io sono la radice e la discendenza di Davide, la lucente stella del mattino (Ap 22:16)
La profezia di Isaia 11, rafforza questa immagine:
Poi un ramo uscirà dal tronco d’Isai, e un rampollo spunterà dalle sue radici […] In quel giorno, verso la radice d’Isai, issata come vessillo dei popoli, si volgeranno premurose le nazioni, e la sua residenza sarà gloriosa (Isaia 11:1-10)
Paolo cita proprio questo passo in Romani 15:12 per dimostrare che Cristo è la speranza tanto di Israele quanto delle nazioni. Egli non presenta una nuova alleanza, bensì l’adempimento della promessa eterna.
L’analisi di questi tre elementi della metafora paolina dimostra che il popolo di Dio non è determinato dall’ascendenza biologica, ma dalla relazione con la promessa divina mediante la fede.
- I rami recisi simboleggiano il giudizio su Israele incredulo, ma con la possibilità di un reinserimento mediante la fede.
- I rami selvatici innestati rappresentano i Gentili che, per mezzo di Cristo, entrano a far parte del popolo di Dio.
- La radice è la promessa abramitica,il cui compimento perfetto è Cristo, il vero erede della promessa.
Questa visione dissolve ogni idea di separazione perpetua tra Israele e la Chiesa: non esistono due popoli paralleli, né una sostituzione dell’uno con l’altro. Vi è un solo ulivo, una sola radice, un solo popolo della fede.
1.B. Un solo albero e una sola radice
Nel versetto 18, Paolo chiarisce che i Gentili non sostituiscono i rami spezzati, ma partecipano alla medesima radice:
Non insuperbirti contro i rami; ma se ti insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te (Ro 11:18)
L’uso del verbo βαστάζω (bastázō, «portare», «sostenere») al presente attivo indica un’azione continua, sottolineando che la radice rimane immutata e continua a sostenere i credenti, siano essi Giudei o Gentili. Un principio ribadito in altri passi della Scrittura:
Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio. Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare (Efesini 2:19, 20)
I Gentili non costituiscono un popolo separato, ma vengono inseriti in una struttura spirituale preesistente. Tale verità esclude sia l’idea di una sostituzione definitiva di Israele sia quella di due popoli distinti, uno giudaico e uno gentile. La Scrittura attesta sin dall’Antico Testamento l’inclusione delle genti nel popolo di Dio:
- I figli degli stranieri che si sono uniti all’Eterno per servirlo, per amare il nome dell’Eterno e per essere suoi servi, tutti quelli che osservano il sabato senza profanarlo e si attengono fermamente al mio patto, li condurrò sul mio monte santo (Isaia 56:6, 7, Diodati)
- In quel giorno molte nazioni si uniranno all’Eterno e diventeranno mio popolo (Zaccaria 2:11, Diodati)
Questi passi confermano che l’ingresso dei Gentili nel popolo di Dio non è un’invenzione posteriore, ma parte integrante del piano divino fin dall’origine.
Nel versetto 29, Paolo afferma che i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili:
I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Romani 11:29, CEI)
L’aggettivo ἀμεταμέλητος (ametamelētos, «irrevocabile, senza pentimento») sottolinea l’immutabilità della volontà divina. Dio non ha rigettato il Suo popolo né ha alterato il Suo piano di salvezza, come attesta l’intero contesto biblico:
- Dio non è un uomo, da poter mentire, né un figlio d’uomo, da doversi pentire. Quando ha detto una cosa non la farà? O quando ha parlato non manterrà la parola? (Numeri 23:19)
- Poiché io, il SIGNORE, non cambio; perciò voi, o figli di Giacobbe, non siete ancora consumati (Malachia 3:6)
L’argomento della lettera ai Romani è chiaro: Dio sta adempiendo il Suo piano senza abbandonare Israele, ma conducendolo alla pienezza mediante Cristo:
Affinché i gentili siano coeredi dello stesso corpo e partecipi della sua promessa in Cristo mediante l’evangelo (Efesini 3:6, Nuova Diodati)
L’uso del termine συγκληρονόμα (synklēronòma, «coeredi, eredi insieme») conferma che Giudei e Gentili condividono la medesima eredità della promessa.
In sintesi, l’immagine dell’Ulivo non avalla né una separazione tra Israele e la Chiesa né una sostituzione dell’uno con l’altra. Il piano di Dio è unitario e coerente: chiunque sia innestato nell’Ulivo partecipa alla stessa radice della fede. Non si tratta della creazione di un nuovo popolo, ma della continuazione di un’unica realtà spirituale che attraversa l’intera storia della redenzione. La fedeltà di Dio garantisce la continuità del Suo popolo, e l’appartenenza non si basa sulla discendenza carnale, ma sulla fede nel Messia.
2. Il principio della fede e la continuità del popolo di Dio
L’argomentazione di Romani 11 si fonda su un principio immutabile della rivelazione biblica: la giustificazione per fede quale unico criterio di appartenenza al popolo di Dio. L’innesto del ramo selvatico nell’Ulivo non segna né un’interruzione né una sostituzione dell’antico popolo dell’alleanza, ma piuttosto la continuità della comunità di fede che attraversa l’intera storia della redenzione. L’appartenenza al popolo di Dio, dunque, non è mai stata determinata da una discendenza carnale, ma da una generazione spirituale operata da Dio.
2.A. Il principio della fede
Il capitolo 11 della lettera agli Ebrei offre un compendio di questa verità, elencando una lunga serie di testimoni della fede che, nel corso della storia biblica, furono giustificati non per genealogia, ma per la fede in Dio. L’espressione ricorrente per fede (πίστει, pístei), dativo strumentale del sostantivo πίστις (pístis, «fede»), sottolinea come la relazione con Dio sia sempre stata fondata su questo principio e non sulla mera appartenenza etnica.
– Abele (Genesi 4:4, Ebrei 11:4) – Per fede (πίστει) Abele offrì a Dio un sacrificio più eccellente di quello di Caino.
La distinzione tra Abele e Caino non risiede nella discendenza, ma nella disposizione del cuore: il criterio di accettazione è la fede, non il lignaggio.
– Noè (Genesi 6:8-9, Ebrei 11:7) – Per fede (πίστει) Noè, divinamente avvertito di cose che non si vedevano ancora, preparò un’arca per la salvezza della sua casa.
Noè fu dichiarato giusto (δικαιοσύνης, dikaiosýnēs) perché credette alla parola di Dio e obbedì, non in virtù della sua appartenenza etnica.
– Abramo (Genesi 15:6; Romani 4:3; Ebrei 11:8-10) – Egli credette (ἐπίστευσεν, epísteusen) a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia.
La giustificazione di Abramo precede la circoncisione (Genesi 17) e la Legge mosaica (Esodo 20), dimostrando che l’appartenenza al popolo di Dio è sempre stata per fede, non per discendenza carnale.
Questa successione di testimoni attesta che la giustificazione per fede precede la formazione della nazione d’Israele e permane come principio centrale della rivelazione biblica.
2.B. Gesù e la ridefinizione della famiglia di Dio
Il Nuovo Testamento conferma che la fede sostituisce ogni pretesa di appartenenza basata sulla genealogia. Gesù stesso ridefinisce radicalmente il concetto di popolo di Dio:
Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi mi è fratello, sorella e madre (Matteo 12:50)
L’avverbio «chiunque» (ὅστις, hóstis) evidenzia l’universalità del nuovo criterio di appartenenza: non è la discendenza carnale, ma la conformità alla volontà divina a determinare chi appartiene alla famiglia spirituale.
Gesù contesta l’orgoglio etnico di coloro che si vantavano della loro discendenza da Abramo:
Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo (Giovanni 8:39)
Qui, Gesù si rivolge a uomini che berano effettivaente discendenti di Abramo secondo la carne, ma evidentemente non lo erano dal punto di vista spirituale. Il Messia qui vuole sottolineare che la vera figliolanza abramitica è spirituale e non biologica. Questa distinzione che aveva già ribadito con Natanaele.
Il caso di Natanaele
Quando Gesù incontra Natanaele, esclama:
Ecco un vero Israelita, in cui non c’è frode (Giovanni 1:47)
Si noti che l’evangelista impiega l’avverbio ἀληθῶς (alēthōs) per qualificare Natanaele non solo come un Israelita in senso etnico, ma come un vero Israelita in senso essenziale e spirituale, sottolineando la realtà manifesta della sua appartenenza al popolo di Dio. L’uso di ἀληθῶς (alēthōs) assume una funzione assertiva e intensificativa, rafforzando la dichiarazione di Cristo e implicando una distinzione tra un semplice Israelita per nascita e un vero Israelita secondo il piano divino, poiché non tutti coloro che appartengono etnicamente a Israele sono effettivamente parte dell’Israele spirituale (Romani 9:6-8). Il criterio distintivo non è la genealogia, ma la fede autentica e sincera, la stessa che caratterizza Natanaele, in cui non c’è δόλος (dolos), termine che significa «inganno, frode, doppiezza» e che nelle Scritture è frequentemente associato alla malizia e all’astuzia negativa (Salmo 32:2; 1 Pietro 2:22). Il riconoscimento di Natanaele da parte di Gesù lo distingue da Giacobbe prima della sua trasformazione: mentre il patriarca, prima di diventare Israele, era caratterizzato dall’inganno, Natanaele si presenta come un uomo di rettitudine autentica, conforme all’ideale dell’Israele fedele a Dio. Se il testo avesse invece impiegato l’aggettivo ἀληθής (alēthēs), il significato sarebbe stato radicalmente diverso: Natanaele sarebbe stato descritto come un Israelita verace o sincero, con un’accentuazione sulla sua qualità personale di onestà e rettitudine morale, piuttosto che sulla verità ontologica della sua identità di autentico appartenente all’Israele spirituale. La scelta dell’avverbio, dunque, non si limita a caratterizzare una qualità soggettiva, ma conferisce alla frase una portata teologica più ampia, in cui la dichiarazione di Gesù non descrive semplicemente Natanaele, ma attesta la realtà manifesta della sua condizione. Questo concetto si allinea con la distinzione tra il Giudeo esteriore e il Giudeo interiore, espressa in Romani 2:28, 29, dove si afferma che il vero Israele non è determinato dalla discendenza biologica, ma dalla fede e dall’integrità spirituale, ovvero da una circoncisione non della carne, ma del cuore. In tal modo, Natanaele diventa un modello dell’autentico credente, colui che, libero da inganno, incarna il vero spirito di Israele in conformità alla volontà divina.
Termine |
Parte del discorso |
Funzione |
Esempi di uso |
ἀληθῶς /alēthōs | Avverbio |
Modifica un verbo o un’intera affermazione, confermando la verità di un enunciato |
ἀληθῶς Ἰσραηλείτης |
ἀληθής /alēthēs | Aggettivo |
Qualifica un sostantivo, descrivendone la veracità o autenticità |
ἀληθὴς Ἰσραηλείτης |
Il parallelo con la metafora dell’Ulivo di Romani 11 è evidente: solo coloro che credono restano parte dell’albero della promessa, mentre chi rigetta Cristo viene reciso. Il contrasto tra l’essere un vero Israelita e l’assenza di frode richiama una figura chiave dell’Antico Testamento: Giacobbe, il patriarca di Israele.
2.C. L’innesto: L’inclusione delle nazioni
L’immagine dell’innesto del ramo selvatico in Romani 11:17 indica che l’ingresso dei Gentili non sostituisce Israele, ma avviene per partecipazione alla stessa radice. Paolo lo ribadisce in Galati:
Riconoscete dunque che coloro che hanno fede sono figli di Abramo (Galati 3:7)
L’espressione greca οἱ ἐκ πίστεως (hoi ek písteōs) – lett. «quelli dalla fede» -, è di cruciale importanza: non è la discendenza carnale, ma la conformità alla fede di Abramo a determinare l’appartenenza al popolo di Dio.
In Efesini 2, Paolo ricorda ai Gentili la loro condizione precedente e il cambiamento radicale avvenuto in Cristo:
In quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. Ma ora, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo (Ef 2:12, 13).
L’avverbio greco ἐγγὺς (engýs, «vicino»), combinato con il verbo ἐγενήθητε (egenḗthēte, «siete stati resi») all’aoristo passivo indicativo, indica un’azione compiuta da Dio stesso. Questo avvicinamento non comporta l’introduzione dei Gentili in un nuovo disegno separato, bensì la loro inclusione nel patto già esistente, in continuità con le promesse fatte ai patriarchi.
Questa verità trova ulteriore conferma in Efesini 3:15, dove Paolo afferma che ogni famiglia nei cieli e sulla terra trae il proprio nome da Dio stesso. Il piano divino, quindi, non si articola in epoche distinte con popoli separati (come vorrebbe l’interpretazione dispensazionalista), bensì si sviluppa in un’unica realtà spirituale che include i credenti di ogni tempo e luogo, uniti sotto la signoria di Cristo.
L’espressione «nei cieli e sulla terra» (ἐν οὐρανοῖς καὶ ἐπὶ γῆς) sottolinea l’unità del popolo di Dio tra coloro che sono già glorificati e coloro che sono ancora pellegrini sulla terra. Questo popolo della fede comprende:
- I santi del passato, ora glorificati con Dio (Ebrei 12:22, 23).
- I credenti del presente, partecipi delle promesse dell’alleanza (Efesini 2:12, 13).
- L’intera creazione redenta, che sarà pienamente unificata in Cristo nel compimento escatologico (Efesini 1:10).
2.D. Il popolo di Dio nel compimento escatologico
L’idea che la fede sia il solo criterio di appartenenza al popolo di Dio si estende sino al compimento ultimo della storia. In Apocalisse 7, Giovanni contempla la moltitudine dei redenti:
Dopo queste cose guardai e vidi una folla immensa che nessuno poteva contare, proveniente da tutte le nazioni, tribù, popoli e lingue, che stava in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, vestiti di bianche vesti e con delle palme in mano. E gridavano a gran voce, dicendo: «La salvezza appartiene al nostro Dio che siede sul trono, e all’Agnello (Apocalisse 7:9, 10)
L’universalità di questa visione attesta il compimento del piano divino: la Chiesa non costituisce una realtà separata, ma rappresenta il popolo di Dio nella sua dimensione universale, unificato dalla fede.
In sintesi:
- Il popolo di Dio è sempre stato definito dalla fede, non dalla genealogia.
- Gesù ha ridefinito la famiglia di Dio in termini di obbedienza e fede, non di discendenza etnica.
- I Gentili non danno origine a un nuovo popolo, ma vengono innestati nel patto già esistente.
- Il compimento escatologico dimostra che il popolo di Dio è uno, universale e fondato sulla fede.
L’innesto del ramo selvatico nell’ulivo non indica una frattura o una sostituzione, bensì conferma il principio eterno secondo cui il giusto vivrà per fede (Romani 1:17, Abacuc 2:4).
L’appartenenza al popolo di Dio, dalle origini della storia biblica sino alla consumazione escatologica, è sempre stata determinata dalla fede in Dio e nella Sua promessa.
3. Israele e i Gentili: un’unità inscindibile
L’analisi contestuale e grammaticale del capitolo undicesimo della Lettera ai Romani dimostra che Paolo non propone due percorsi distinti di salvezza—uno per Israele e uno per i Gentili—bensì ribadisce un’unica via: la fede in Cristo. L’errore di chi interpreta questo capitolo in chiave discontinua risiede nell’ignorare l’unità della Scrittura e la coerenza del piano redentivo divino.
L’apostolo utilizza una metafora agraria — l’ulivo e l’innesto — per escludere ogni concezione di popoli separati. Al contrario, il testo sottolinea l’inclusione e la partecipazione dei Gentili nell’unico albero dell’alleanza, l’Israele di Dio (Galati 6:16; Romani 9:6-8), rivelando la continuità spirituale e teologica del popolo di Dio lungo tutta la storia della redenzione.
3.A. Israele incredulo è escluso dall’alleanza fino al ravvedimento
Allo stesso modo anche quelli, se non perseverano nella loro incredulità, saranno innestati; perché Dio ha la potenza di innestarli di nuovo (Romani 11:23)
Qui il verbo ἐγκεντρίζω (enkentrízō, «innestare») è al futuro passivo indicativo, indicando che sarà Dio stesso a reinnestare Israele qualora abbandoni l’incredulità. L’espressione ἐὰν μὴ ἐπιμείνωσιν τῇ ἀπιστίᾳ (ean mē epimeínōsin tē apistíāi, «se non perseverano nell’incredulità») dimostra che la loro esclusione non è definitiva, ma condizionata alla loro conversione.
Paolo aveva già chiarito che l’appartenenza a Israele non è determinata dalla genealogia, bensì dalla fede:
Non è che la parola di Dio sia caduta a terra, perché non tutti i discendenti d’Israele sono Israele (Romani 9:6)
Dunque, la vera identità di Israele è spirituale, non meramente etnica. L’alleanza è vincolata alla fede individuale e non a un’appartenenza nazionale: gli Israeliti increduli sono stati recisi, ma potranno essere reinnestati solo riconoscendo il Messia.
3.B. I Gentili innestati devono camminare con umiltà
L’inserimento dei Gentili nell’Ulivo dell’alleanza è un atto di grazia, non un diritto acquisito. Paolo li ammonisce con parole chiare:
Bene: essi sono stati troncati per la loro incredulità e tu rimani stabile per la fede; non insuperbirti, ma temi. Perché se Dio non ha risparmiato i rami naturali, non risparmierà neppure te (Romani 11:20, 21)
Il verbo ἐξεκλάσθησαν (exeklásthēsan, «sono stati recisi») è un aoristo passivo, indicando un’azione già compiuta nel passato, ovvero l’esclusione di Israele incredulo. Tuttavia, il verbo ἕστηκας (héstēkas, «stabile», «ritto») è al perfetto attivo, suggerendo una condizione attuale di stabilità fondata sulla fede.
L’ammonizione μὴ ὑψηλοφρόνει, ἀλλὰ φοβοῦ (mē hypsēlophrónei, allà phoboû, «non insuperbirti, ma temi») sottolinea che il rischio della caduta non riguarda solo Israele, ma anche i Gentili. L’elezione non garantisce automaticamente la permanenza nell’alleanza senza una fede autentica e perseverante. La salvezza non è una condizione statica, bensì un cammino che esige fedeltà.
3.C. Tutto Israele sarà salvato
Infatti, fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi: un indurimento si è prodotto in una parte d’Israele, finché non sia entrata la totalità degli stranieri; e tutto Israele sarà salvato, così come è scritto: «Il liberatore verrà da Sion. Egli allontanerà da Giacobbe l’empietà; e questo sarà il mio patto con loro, quando toglierò via i loro peccati» (Romani 11:25-27)
Un’analisi attenta dimostra che Paolo non si riferisce a un futuro riscatto collettivo di Israele etnico, ma all’Israele spirituale, composto da credenti giudei e gentili.
– La struttura del testo e il significato di «così»
L’avverbio οὕτως (houtōs, «così») assume qui un valore modale, e non temporale, come in Giovanni 3:16. Esso introduce il modo in cui Israele sarà salvato, non il momento in cui ciò avverrà. Il termine si collega al processo descritto nei versetti precedenti e indica la modalità della salvezza, non un evento escatologico separato.
L’ordine logico delineato da Paolo in Romani 11 è il seguente:
- Una parte di Israele è stata indurita (Romani 11:25).
- I Gentili sono entrati nella salvezza (Romani 11:11, 12).
- Dalla predicazione del Vangelo emerge l’intero popolo di Dio, formato da Giudei e Gentili credenti, che costituiscono l’«Israele di Dio» (Galati 6:16).
L’uso di οὕτως (houtōs, «così») è coerente con il flusso argomentativo dell’epistola: Paolo non profetizza un futuro evento di massa per Israele etnico, ma descrive il processo attraverso cui la salvezza si realizza lungo il corso della storia della redenzione.
– In che senso «Tutto Israele»?
La questione centrale ruota attorno al significato dell’espressione πᾶς Ἰσραὴλ (pas Israēl, «tutto Israele»). Alcuni esegeti sostengono che essa indichi un futuro risveglio nazionale di Israele con una conversione collettiva del popolo ebraico in un’epoca escatologica. Tuttavia, tale interpretazione risulta incongruente con il contesto della lettera e l’intero impianto neotestamentario.
L’identità dell’Israele di Dio secondo Paolo
Paolo aveva già ridefinito il concetto di Israele nei capitoli precedenti della sua epistola:
Romani 9:6 → «Non tutti i discendenti di Israele sono Israele».
Qui egli introduce una distinzione essenziale tra l’Israele puramente etnico e l’Israele della promessa, la cui identità è determinata dalla fede, non dalla discendenza fisica.
Galati 6:16 → «Su quanti cammineranno secondo questa regola sia pace e misericordia, e sull’Israele di Dio».
In questo passaggio, Paolo applica il termine Israele alla comunità cristiana, evidenziando un’identità spirituale piuttosto che etnica.
Se in Romani 9-11 Paolo ha costantemente argomentato che il vero Israele è quello della fede, risulta logico concludere che in Romani 11:26 egli si riferisca alla totalità del popolo di Dio, e non a una futura conversione escatologica dell’Israele etnico.
La continuità storica e teologica del popolo di Dio
L’unità del popolo redento emerge chiaramente dalla Scrittura, a partire dalla promessa fatta ad Abramo (Genesi 12:3), che trova il suo compimento nella comunità della fede in Cristo.
- Efesini 2:14-16 → Cristo ha abbattuto il muro di separazione tra Giudei e Gentili, facendo di loro un unico popolo.
- Galati 3:7 → «Riconoscete dunque che coloro che hanno fede sono figli di Abramo», confermando che l’appartenenza al popolo di Dio è determinata dalla fede, non dalla genealogia.
- Romani 11:17-24 → La metafora dell’ulivo dimostra che i Gentili vengono innestati nello stesso albero dell’alleanza, rendendo la salvezza un’unica realtà senza distinzioni etniche.
Alla luce di questa rivelazione progressiva, appare evidente che «tutto Israele» non si riferisca a un futuro risveglio nazionale di Israele, bensì all’intera comunità dei redenti, composta da Giudei e Gentili uniti nella fede in Cristo.
Riflessioni sintattico-grammaticale di Romani 11:26
L’interpretazione proposta trova conforto anche nel testo greco:
- πᾶς Ἰσραὴλ (pas Israēl, «tutto Israele») → L’aggettivo πᾶς (pas) nel Nuovo Testamento non indica necessariamente ogni singolo individuo di un gruppo senza eccezioni, ma può riferirsi a un insieme rappresentativo, alla totalità di una categoria (cfr. Mt 3:5; 4:4, 24; Gv 3:26; 12:32; Ro 5:12). Pertanto, in Romani 11:26, non implica la salvezza di ogni singolo ebreo, bensì la pienezza escatologica del popolo di Dio, formato da Giudei e Gentili credenti.
- σωθήσεται (sōthēsetai, «sarà salvato») → Il verbo è un futuro passivo indicativo del verbo σῴζω (sōzō, «salvare»). Nel greco biblico, il futuro non sempre indica un evento puntuale e temporale, ma può avere un valore escatologico generale, esprimendo il risultato certo del piano divino, piuttosto che un singolo momento storico. Ad esempio, in Matteo 5:9 («Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio») il futuro descrive una condizione permanente più che un evento futuro separato. Così, il futuro passivo σωθήσεται in Romani 11:26 non implica necessariamente una salvezza futura e collettiva di Israele, ma sottolinea la certezza della salvezza nel piano divino, un processo già in atto culminante nella consumazione escatologica della Chiesa.
- Ἥξει ἐκ Σιὼν ὁ ῥυόμενος (Hēxei ek Siōn ho rhyomenos, «Verrà da Sion il Liberatore») → Il verbo ἥξει (hēxei, «verrà») è al futuro, ma il Nuovo Testamento afferma chiaramente che Cristo è già venuto come Redentore. Il riferimento a Isaia 59:20, 21 citato, conferma che la salvezza non è un evento futuro bensì è stata inaugurata con la prima venuta di Cristo.
Conclusione
L’analisi sintattico-grammaticale conferma che Romani 11:26 non annuncia una futura conversione nazionale di Israele, bensì descrive il compimento del piano salvifico, che include sia Giudei che Gentili credenti.
- «Tutto Israele» si riferisce all’Israele di Dio, ossia alla comunità della fede, senza distinzioni etniche.
- La salvezza è già in corso e non attende un futuro evento escatologico riservato a Israele etnico.
- Cristo è già venuto come Liberatore, adempiendo le promesse veterotestamentarie.
- Il piano di Dio è unitario: non vi sono due popoli distinti, ma un solo Israele spirituale, costituito dai redenti dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Il mistero della redenzione non si risolve in una dicotomia tra Israele e la Chiesa, bensì nell’espansione dell’alleanza, affinché la famiglia di Dio comprenda persone di ogni nazione, tribù e lingua:
«Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai acquistato a Dio, con il tuo sangue, gente di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Apocalisse 5:9).
La redenzione è, ed è sempre stata, universale, non circoscritta etnicamente. Il progetto divino è quello di costituire un solo popolo, unito nella fede in Cristo, al di là di ogni distinzione genealogica.
4. Il ritorno dei rami troncati e il disegno finale di Dio
Paolo conclude la sua argomentazione in Romani 11 affermando che Israele non è stato rigettato definitivamente (Romani 11:1, 2), ma che la sua restaurazione avverrà nel momento in cui riconoscerà il proprio Messia. Tuttavia, questo processo non implica il ripristino di un Israele etnico separato dalla Chiesa, bensì manifesta la fedeltà di Dio alle Sue promesse e il compimento del Suo disegno redentivo.
L’errore di chi postula una dicotomia tra Israele e la Chiesa risiede nella mancata comprensione della continuità storico-teologica della rivelazione biblica: il popolo di Dio, da Genesi ad Apocalisse, è sempre stato definito dalla fede, non dall’appartenenza etnica.
4.A. Il reinnesto di Israele
Nel cuore dell’argomentazione, il verbo ἐγκεντρίσονται (enkentristhēsontai, «saranno innestati di nuovo») al futuro passivo indicativo (v. 23) indica un’azione che sarà compiuta interamente da Dio.
Allo stesso modo anche quelli, se non perseverano nella loro incredulità, saranno innestati; perché Dio ha la potenza di innestarli di nuovo. (Ro 11:23)
L’uso del futuro passivo sottolinea che il reinnesto è opera esclusiva della grazia divina e non il risultato di un automatismo etnico. Paolo non menziona alcuna restaurazione nazionale, ma descrive una reintegrazione nel popolo della fede, subordinata alla conversione a Cristo.
Non si tratta di un ritorno collettivo di Israele come entità politica o etnica, bensì di un rientro individuale, secondo lo stesso principio applicato ai Gentili (v. 20): la permanenza nell’alleanza è condizionata alla fede.
4.B. L’immagine dell’Ulivo e il continuum della fede
Paolo riprende la metafora dell’ulivo per dimostrare che non esistono due popoli distinti, ma un’unica realtà redentiva (v. 24):
Se tu sei stato tagliato dall’olivo selvatico per natura e sei stato contro natura innestato nell’olivo domestico, quanto più essi, che sono i rami naturali, saranno innestati nel loro proprio olivo (Ro 11:24)
- κατὰ φύσιν (katà physin, «secondo natura») → Israele ha una relazione storica con la radice dell’alleanza, ma tale legame non garantisce automaticamente la salvezza.
- παρὰ φύσιν (parà physin, «contro natura») → L’innesto dei Gentili è un atto di pura grazia divina, privo di qualsiasi base etnica.
- τῇ ἰδίᾳ ἐλαίᾳ (tē idìa elaia, «al proprio olivo») → Indica che il ritorno d’Israele non avviene in una posizione separata o privilegiata, ma nella stessa realtà spirituale condivisa dai credenti di ogni nazione.
La metafora dell’ulivo conferma la continuità storico-teologica del popolo di Dio: l’autentico Israele è sempre stato definito dalla fede, non dalla genealogia carnale.
4.C. Il disegno finale di Dio
L’immagine finale delineata in Romani 11 è quella di un’unica famiglia di Dio, formata da credenti provenienti da Israele e dalle nazioni.
Vi è un solo corpo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, fra tutti e in tutti (Efesini 4:4-6)
- Un solo corpo → Israele credente non costituisce una realtà separata dai Gentili credenti, ma partecipa alla stessa comunità spirituale.
- Una sola fede → La salvezza è sempre stata mediante la fede, mai per discendenza etnica (Romani 4:16).
- Un solo Dio e Padre di tutti → Non vi sono due popoli distinti con due destini separati, ma un’unica comunità della fede.
Il ritorno d’Israele non rappresenta un evento escatologico indipendente dal resto del piano divino, ma costituisce un’ulteriore manifestazione della grazia di Dio, che unisce tutti i credenti in Cristo in un unico popolo redento.
5. Un messaggio sempre attuale
L’ulivo si erge, secolare e indomito, tra le pietre del tempo, mentre le sue radici affondano nell’invisibile, cercando linfa nelle profondità della terra. Non cede alla siccità, né teme la furia del vento; è l’albero della perseveranza, della tenacia e della vita che non muore. Così è il credente che dimora in Cristo, radicato nella grazia, nutrito dalla verità, saldo nella prova. L’ulivo è il simbolo dell’Israele di Dio, il popolo dell’alleanza eterna, non secondo la carne ma secondo la fede (Galati 6:15-16; Efesini 2:14-16; Romani 2:28-29; 9:6-8). La sua radice non è una genealogia terrena, bensì Cristo stesso, il germoglio di Iesse, il fondamento incrollabile da cui scorre ogni nutrimento spirituale (Is 11:10; Ap 22:16).
Chiunque sia innestato in questa radice vive, perché la vita non è nel ramo ma nella linfa che lo attraversa. Il popolo di Dio non si definisce per l’appartenenza etnica, ma per la fede nel Messia, l’Agnello designato prima della fondazione del mondo, in cui ogni credente trova il proprio nome scritto nel Libro della Vita. Da Abele a Noè, da Melchisedec a Rut, dai Niniviti pentiti a Natanaele, la Scrittura testimonia che la giustizia è sempre stata per fede e non per discendenza. Davide stesso, re d’Israele, portava nel suo sangue l’eredità di Rut la moabita e di Raab la cananea, mostrando che la grazia di Dio non ha mai conosciuto confini di sangue, ma ha sempre accolto chiunque si rifugiasse in Lui (Ebrei cap. 11).
L’ulivo non teme l’aridità, perché la sua radice è profonda; non ha bisogno di sostegni come la vite, né di condizioni perfette come il fico, perché porta frutto anche nelle difficoltà. L’olio che da esso si estrae è luce per le lampade, unzione per i sacerdoti, balsamo di guarigione. Così è il discepolo di Cristo: consacrato, illuminato dallo Spirito, chiamato a portare il suo frutto nel tempo opportuno. Ma come l’ulivo deve essere scosso per produrre olio, così anche la fede viene provata affinché dia il suo frutto migliore. La domanda è inevitabile: sono radicato in Cristo come un ulivo piantato nella Parola di Dio? Oppure la mia fede è superficiale e destinata a seccarsi? Chi è saldo nella radice vivrà, perché si può recidere un ramo, ma non si può spezzare l’albero che ha la sua vita nella profondità del suolo.
Conclusione
Il capitolo 11 della Lettera ai Romani non avalla né la Teologia della Sostituzione, né il Dispensazionalismo, poiché entrambe le prospettive frammentano l’unità della rivelazione e della redenzione.
Da un lato, l’idea che la Chiesa abbia rimpiazzato Israele, escludendolo definitivamente dalle promesse divine, contraddice la fedeltà di Dio. Se il Signore revocasse le Sue promesse, che ne sarebbe della speranza stessa del Vangelo? Paolo risponde con fermezza a questa ipotesi:
Dio ha forse rigettato il suo popolo? No di certo! (Romani 11:1).
Dall’altro lato, il Dispensazionalismo postula una separazione insormontabile tra Israele e la Chiesa, come se il piano divino si sviluppasse lungo due percorsi distinti e paralleli. Tuttavia, la Scrittura insegna chiaramente che la fede, e non la discendenza etnica, è il criterio di appartenenza al popolo di Dio. Non vi è più Giudeo né Greco, ma tutti sono uno in Cristo Gesù (Galati 3:28).
L’immagine dell’Ulivo usata da Paolo confuta entrambe queste posizioni. Israele non è stato rimpiazzato, ma neppure mantiene un ruolo separato nel piano divino. Il popolo di Dio è uno solo, nutrito dalla stessa radice:
- I rami recisi rappresentano Israele incredulo, escluso non per origine etnica, ma per mancanza di fede.
- I rami selvatici innestati sono i Gentili, accolti nella stessa alleanza per grazia, mediante la fede.
- La radice immutabile è la promessa divina fatta ad Abramo, che trova il suo pieno compimento in Cristo.
Lungi dal concepire due popoli distinti o un patto revocabile, Paolo proclama l’unità organica della redenzione. Dio non ha due famiglie, ma un solo popolo, composto da coloro che camminano per fede. Da Abele ad Abramo, da Mosè agli apostoli, la giustificazione è sempre stata fondata sullo stesso principio:
Iustus ex fide vivit – Il giusto vivrà per fede (Romani 1:17, Abacuc 2:4).
Non vi è dunque una sostituzione, ma una continuità; non vi è una frattura tra Israele e la Chiesa, ma una progressiva estensione dell’alleanza. L’ingresso dei Gentili nel popolo di Dio non ha creato una nuova realtà separata, ma ha portato a compimento il disegno divino, in cui non vi sono più distinzioni carnali, ma solo la comunione della fede.
Cristo è il centro e il vertice della storia della salvezza, la pietra angolare su cui la sua Chiesa è edificata (Efesini 2:20). In Lui si compie la promessa fatta ad Abramo:
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra (Genesi 12:3).
Dio non abbandona il Suo popolo né revoca il Suo patto. Piuttosto, Egli porta a compimento ogni cosa secondo il Suo disegno benevolo (Giobbe 42:2; Efesini 1:5, 9), affinché, alla fine dei tempi, vi sia un solo gregge sotto un solo pastore (Giovanni 10:16).
Grazie Fr.Filippo
Grazie a te
Grande verità alla luce della Parola.
Grazie Filippo , per questa importante esposizione.
La verità ci rende sempre liberi.
Benedizioni
Grazie a te.